L'Università di Harvard sembra disposta a negoziare un compromesso che chiuda l'offensiva della Casa Bianca
Il New York Times ha già messo le mani avanti: Harvard sta negoziando con Donald Trump un “deal”, un compromesso ormai quasi obbligato per chi voglia rimettere assieme i cocci di rapporti frantumati dal Presidente-businessman. Il “cessate il fuoco” andrebbe a scongiurare danni potenzialmente enormi – soprattutto sul piano finanziario – alla più prestigiosa università statunitense, cui nelle ultime settimane la Casa Bianca ha revocato i finanziamenti federali e quindi interdetto l’iscrizione di studenti stranieri.
La motivazione ufficiale dell’Amministrazione ha guardato ai rischi per la sicurezza nazionale: soprattutto dopo che Harvard ha ospitato il primo e più importante focolaio di proteste studentesche anti-israeliane dopo il 7 ottobre 2023.
Lo scandalo politico-mediatico è stato ovviamente assordante, evocando un’ennesima “culture war” attizzata dal trumpismo contro il Politically Correct finora dominante, ma più in generale una crociata oscurantista contro la stessa civiltà democratica. Sta di fatto che – dopo qualche schermaglia giudiziaria – Harvard sembra ora poco intenzionata a “resistere-resistere-resistere” alla Casa Bianca: e disposta invece a discutere dei “desiderata” dell’Amministrazione per togliere l’ateneo dalla lista nera.
Ovvio che il Nyt – portavoce mediatico dello stesso establishment dem-liberal che ha in Harvard il suo hub culturale – riverberi un clima pensoso e sofferto. Il timore delle autorità accademiche è quello che qualsiasi “deal” venga annunciato venga letto come un “appeasement”, cioè un accordo debole e pericoloso come quello di Monaco 1938 fra le democrazie europee e la Germania hitleriana. Ma l’intesa – par di capire – è quasi pronta: e presumibilmente avrà al suo centro il rafforzamento degli standard di contrasto all’antisemitismo (con strette prevedibili per iscrizioni, attività di ricerca e insegnamento e libertà di manifestazione culturale e politica collegate a Israele e alla guerra di Gaza).
Ma chi si avventurerebbe in una vera opposizione a Trump nei panni di Alan Garber, il rettore (israelita) subentrato ad interim a Pauline Gay, donna e afro cacciata dai trustee di Harvard per non aver impedito i cortei pro-pal? Chi può ragionevolmente pretendere un dietrofront da Bill Ackman, il tycoon (israelita) di Wall Street, fra i maggiori donatori privati di Harvard, nonché fra i più accesi denuncianti dei dilagare dell’antisemitismo nel campus? Harvard ha la forza per ergersi a trincea di retroguardia di un’ex Amministrazione democratica titubante sui campus pro-pal e infine demolita a favore di Trump grazie anche alla comunità finanziaria israelita e al Premier israeliano Bibi Netanyahu?
Mentre ad Harvard meditano, sul filo del rasoio del contrasto all’antisemitismo è scivolato un altro rettore della East Coast: Jim Ryan dell’University of Virginia, fondata nel 1800 dal Presidente Thomas Jefferson. E com’è avvenuto negli ultimi 18 mesi – a cominciare dal caso Gay ad Harvard – i volti dell’establishment liberal sono apparsi tutti contriti, ma nessuna voce è risuonata davvero, nessun braccio si è steso davvero a difesa di un capo d’ateneo dubbioso nel reprimere la libertà studentesca di protestare contro Israele.
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