La presentazione del Documento di economia e finanza da parte del Governo la scorsa settimana ha destato preoccupazione in alcuni economisti e analisti per i rischi derivanti da un eccessivo indebitamento del nostro Paese. Anche la Corte dei Conti, presentando ieri alle Commissioni congiunte Bilancio di Senato e Camera la propria Memoria, ha evidenziato che quello intrapreso con il Def è un “percorso impegnativo. La sostenibilità nel medio lungo termine di un debito già molto elevato prima dello scoppio dell’emergenza, e aumentato di oltre 21 punti nell’ultimo anno, richiede infatti di intraprendere rapidamente iniziative in più terreni di azione”.
Gustavo Piga, professore di Economia politica all’Università Tor Vergata di Roma, appare invece deluso per altri motivi dal Def, un documento che ritiene «fondamentale per capire gli orientamenti di un Governo, più importante della Legge di bilancio, perché benché quest’ultima contenga gli interventi specifici di politica economica, il primo è quello che viene studiato con maggiore attenzione da chi, come le imprese, deve effettuare investimenti e pertanto capire quale sarà il contesto di medio periodo».
Alla luce di questo cosa dice del Def presentato dal Governo Draghi?
Prima di rispondere, mi lasci evidenziare una cosa. Dai documenti ufficiali abbiamo preso atto che il Governo Conte-2 ha mancato due “promesse” tra loro interconnesse. La prima è relativa al rapporto deficit/Pil del 2020 stimato al 10,8%, ma che è stato invece del 9,5%. Il che vuol dire che non stati spesi circa 20 miliardi di euro che si sarebbero potuti usare per fornire supporto all’economia. La seconda è relativa alla previsione di crescita per il 2021 pari al 6%, che ora nel Def viene invece stimata al 4,5%.
C’è da dire però che tra la stima della Nadef dell’anno scorso e quella del Def di settimana scorsa c’è stata in mezzo la seconda ondata di Covid, oltre che le restrizioni dell’ultimo mese…
Sì, ma questo non fa altro che dimostrare quanto sarebbe stato importante usare quei circa 20 miliardi di deficit autorizzato da Bruxelles per cercare di spingere la crescita. Comunque, per rispondere alla sua domanda sul Def 2021 vorrei anche ricordare che il precedente esecutivo aveva previsto di ridurre il deficit/Pil dal 10,8% del 2020 al 3% in tre anni. Guardando al deficit strutturale, c’era una riduzione del 2,9%. Sostanzialmente una folle austerità, circa 60 miliardi di volontari aumenti di tasse o tagli di spesa. Quello che colpisce è che il Governo Draghi ha fatto peggio.
Perché?
Ci si aspettava che un Premier che gode della fiducia europea riuscisse a spuntare delle condizioni di rientro migliori, invece è prevista una riduzione del deficit/Pil dall’11,8% del 2021 al 3,4% nel 2024, cioè una discesa dell’8,4% in tre anni, superiore a quella di Conte (7,8%). Se si guarda al deficit strutturale, si passa dal 9,3% al 3,8%, c’è quindi un taglio del 5,5%, quasi il doppio di quello di Conte. Senza dimenticare un dettaglio non certo irrilevante.
Quale?
Gran parte di questa riduzione avviene nel 2022. È previsto infatti che per il deficit/Pil si passi dall’11,8% al 5,9% in un solo anno. In termini di deficit strutturale, la diminuzione è di quasi 4 punti percentuali, dal 9,3% al 5,4%. La cosa è ancora più clamorosa se tiene conto che l’Unione europea ha già da tempo fatto sapere che il Patto di stabilità e crescita sarà sospeso per tutto l’anno prossimo. Quindi non c’era davvero nessun bisogno di dare un segnale così restrittivo all’economia italiana. Quale imprenditore investe in un Paese con un livello di austerità così elevato? L’austerità contenuta nel Def di Conte era esattamente uguale all’espansione dovuta agli effetti del Recovery fund, mentre in quello di Draghi è superiore.
Il Def viene sì predisposto dal Governo italiano, ma deve essere poi esaminato da Bruxelles. Secondo lei, c’è stata una mancanza di coraggio da parte dell’esecutivo oppure un’imposizione implicita europea?
Draghi, con il suo standing, avrebbe potuto tranquillamente convincere l’Europa e tenere una posizione espansiva, vista anche la sospensione del Patto di stabilità e crescita. Potevamo ridurre di poco il deficit, non certo di quasi il 5% in un anno. Siamo di fronte all’ennesima occasione persa e all’ennesima conferma che al di là delle condizionalità che sono dentro al Recovery fund, c’è un condizionamento mostruoso da parte dell’Europa.
Da che punto di vista?
Lo scambio è chiarissimo: io ti dò il Recovery fund, con le sue condizionalità, in cambio tu accetti il mio condizionamento di rispettare il Fiscal compact, che teoricamente non dovrebbe esistere più, ma che come vediamo nella sostanza è vivo e vegeto, oltre che in perfetta forma. Non può non balzare agli occhi l’enorme differenza tra la stance fiscale dell’Amministrazione Biden, che ha messo sul tavolo una manovra così espansiva da preoccupare persino alcuni tra gli economisti americani più keynesiani, e questa Europa così avara, non solo nel pagare i vaccini, ma rispetto alla società e a chi è in difficoltà. Forse non si riesce a capire che in gioco c’è più dell’economia.
Cosa intende dire?
Se Biden ha messo in campo misure così espansive non è solo per facilitare la ripresa americana, ma anche per salvare la democrazia. Il Presidente sa benissimo che lo spettro che deve sconfiggere è quello di Trump e di tutti i movimenti anti-democratici che possono rafforzarsi quando non si ascoltano i più deboli. Bruxelles, invece, continua a giocare con il fuoco in un continente che conosce bene gli autoritarismi e i loro effetti. Le democrazie europee sono solide, ma non vanno messe a rischio.
Torniamo al Def. Quale sarebbe stata a suo modo di vedere la traiettoria di diminuzione del deficit da indicare?
Premetto che non sono un amante del deficit in sé, ma ritengo occorra che quelle risorse addizionali vengano spese per gli investimenti pubblici, che sono quelli che, come è stato messo nero su bianco dalla Banca d’Italia, maggiormente contribuiscono a ridurre il rapporto debito/Pil. Detto questo, io avrei indicato un deficit/Pil al 10% nel 2022. È importante sottolineare che l’anno prossimo non ci saranno le spese per ristori, Cig e sussidi che avremo nel 2021. Quindi avrei ridotto il deficit/Pil dell’1,8%, anziché del 5,9% come indicato dal Governo, per avere spazio fiscale per investimenti pubblici addizionali.
Il Governo ha previsto però un fondo pluriennale da 30 miliardi per investimenti in opere pubbliche che non rientreranno nel Recovery Plan.
Non conta quando si stanziano i fondi, ma quando si utilizzano effettivamente. È vero che il nostro Paese non riesce a spendere bene, e speriamo che con i ministri Giovannini e Brunetta si possano fare passi avanti su questo fronte, ma anche vero che non può spendere se contemporaneamente si impegna a ridurre il deficit in un modo così forte. A meno di non ipotizzare aumenti di tasse o tagli di altre spese.
(Lorenzo Torrisi)
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