I medici cubani impegnati in Italia sono parte di una strategia che venne concepita da Fidel Castro per finanziare gli apparati del regime
C’è una notizia che, in questa calda estate italiana, è passata sotto traccia oppure è stata raccontata principalmente da media “di parte”: la visita in Italia di Gerardo Hernandez Nordelo, leader dei CDR cubani (Comitati per la Difesa della Rivoluzione), organo creato nel 1960 da Fidel Castro con lo scopo dichiarato di difendere la rivoluzione “quartiere per quartiere”, con attività di controllo sui cittadini cubani.
Molti attivisti anti-regime (diversi sono presenti anche in Italia), denunciano i CDR come una forma di polizia politica, anche perché possono segnalare “comportamenti sospetti” alle autorità.
Nordelo nel suo “curriculum” ha all’attivo anche un arresto e circa 15 anni di prigione negli USA per attività di spionaggio. In effetti, a fine anni Novanta si trovava a Miami con lo scopo dichiarato di infiltrarsi nelle organizzazioni anti-castriste che, secondo il regime, progettavano e realizzavano attentati a Cuba.
Pur essendo stato condannato all’ergastolo, Nordelo è stato rilasciato insieme ad altri quattro colleghi (“Los cinco”) nel 2014 grazie allo storico accordo tra Obama e Raul Castro.
Viene considerato un “Eroe della rivoluzione” dal regime cubano, ma, stando a quanto riportato sui siti ufficiali, anche dall’Associazione Nazionale di Amicizia Italia-Cuba e da movimenti comunisti italiani.
È stata l’Associazione, con la collaborazione anche di alcuni sindacati, a organizzare il tour italiano di Nordelo, che ha svolto diverse attività ufficiali, tra cui un incontro presso l’Università Roma Tre il 25 giugno e un altro a Milano, ed è stato spesso ricevuto da autorità istituzionali italiane. I rapporti tra il nostro Paese e Cuba in effetti sono molto attivi e riguardano diversi aspetti, come ad esempio la sanità.
Per cercare di sopperire alla carenza di personale medico, infatti, nel 2022 fu siglato un accordo tra la Regione Calabria e la Comercializadora de Servicios Medicos Cubanos (CSMC), recentemente rinnovato fino al 2027, che prevede l’impiego di medici cubani presso le strutture della regione. Ad oggi prestano servizio 372 medici, destinati a diventare circa 500.
La giornalista cubana naturalizzata irlandese, Annarella O’Mahony, nei giorni scorsi ha pubblicato su Cubanet (media indipendente) un’inchiesta dettagliata che cita molte fonti orali e documentarie. In questo lavoro, la giornalista mostra con chiarezza la dinamica dei pagamenti: formalmente, i medici cubani hanno un contratto con la Regione Calabria, che sostiene il peso degli emolumenti, come anche il vitto e l’alloggio.
Il problema è che i medici cubani hanno un altro contratto (nella sostanza, quello effettivo) con la CSMC che esercita un ferreo controllo politico sulle persone e soprattutto pretende che i medici cubani “donino alla società cubana” una parte importante del loro salario.
Secondo tale inchiesta, che riporta anche documenti della CSMC, ai medici cubani viene consentito di tenere per sé una percentuale che va dal 28% al 46% dello stipendio di base netto erogato dalla Regione Calabria. Il resto deve essere versato al CSMC.
Come sottolineano altre inchieste altrettanto accurate di Annarella O’Mahony, questo sistema non è una novità per il regime cubano. Anzi, sembra rispondere ad una precisa strategia politico-economica: la “diplomazia medica”. Un metodo di finanziamento degli apparati del regime, nonché un mezzo di propaganda ideologica. Uno dei Paesi in cui tale prassi è utilizzata da più tempo è l’Angola, nella quale dagli anni 60 si sono intrecciate dinamiche che riguardano sia la Guerra fredda che la decolonizzazione.
Negli anni 70, per rispondere all’attacco del Sudafrica verso l’Angola sostenuto dagli USA, Cuba inviò, con il supporto dell’URSS, truppe militari. Dopo anni di guerra, la vittoria fu per i miliziani angolani sostenuti da Cuba, i quali instaurarono un regime comunista. Oggi le cose sono cambiate, in Angola non c’è più una forma di governo socialista, ma la presenza di professionisti cubani, tra cui tanti medici, non è cessata.
Anche nel Paese africano, tutte le spese per i medici sono sostenute dal governo locale, mentre il Grupo de Administracion Empresarial S.A. (GAESA), di proprietà delle forze armate del regime, esercita un controllo sui cubani presenti in Angola e preleva una parte consistente del loro salario.
Secondo alcune testimonianze dirette, i medici cubani partecipano a queste missioni, separandosi anche dalle proprie famiglie per anni, spinti non tanto dalla solidarietà quanto dall’esigenza di guadagnare di più rispetto a quanto accade in patria, dove sono sottopagati. E proprio questo aspetto rappresenta un ulteriore elemento di controllo da parte del regime, che “tiene in ostaggio” i loro familiari sull’isola.
Secondo i dati ufficiali, sono circa 24.500 i professionisti cubani impegnati in 56 Paesi nel mondo. Fidel Castro fu l’architetto di questo vero e proprio “business della solidarietà”, che è stata la principale fonte di reddito per il governo cubano, dal momento che ha fruttato miliardi in valuta forte, oltre a un’influenza diplomatica.
Il sistema si basa su due pilastri: l’appropriazione dello stipendio dei professionisti inviati all’estero (che talvolta arriva fino al 95%) e il controllo politico. Nel frattempo il regime reinveste meno del 2% nell’infrastruttura sanitaria nazionale, che vede infatti una carenza di medici e di beni di prima necessità negli ospedali.
Per far funzionare questo programma il regime si serve di alcuni deterrenti, come ad esempio il divieto di rientro a Cuba di 8 anni per i professionisti che abbandonano la missione all’estero.
La versione del regime e di quanti, anche in Italia, lo sostengono, è che i problemi del popolo cubano derivano dal “bloqueo”, l’embargo americano, che tuttavia è indirizzato nei confronti del governo (non verso imprese e privati cittadini) e comunque non riguarda cibo né medicinali.
Nel frattempo, nelle carceri cubane vi sono, secondo stime realistiche, oltre mille detenuti politici. A fine anni 90 un gruppo di attivisti sviluppò il cosiddetto “Progetto Varela”, per portare pacificamente delle riforme a Cuba e così superare il comunismo.
Il governo reagì con una dura repressione, ritenendo il socialismo “irreversibile” nell’isola, e Oswaldo Payà, leader del progetto, morì poco tempo dopo in un incidente stradale. L’Unione Europea, e altre organizzazioni internazionali, hanno denunciato in più di un’occasione la violazione dei diritti umani a Cuba.
In Italia e in altri Paesi di tutto il mondo è ramificata una rete di attivisti politici che denunciano il regime cercando di raccontare la reale situazione di Cuba, e proprio per questo non possono più far ritorno nell’isola poiché verrebbero arrestati come “terroristi”.
Molti di loro sono comprensibilmente indignati non solo per quello che succede in patria, ma perché in Italia (così come in altri Paesi) non c’è un’effettiva conoscenza di ciò che è accaduto e sta accadendo nell’isola, e permangono significativi residui ideologici.
Un esempio? La considerazione di cui ancora oggi gode Ernesto Che Guevara, da loro definito un “criminale”.
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