L'immunità di Ilaria Salis è salva per un voto: 306 sì, 305 no. Lo scrutinio segreto ha coperto le manovre trasversali del PPE
C’è un effetto collaterale del voto con cui l’europarlamento ha salvato per il rotto della cuffia Ilaria Salis dal processo in Ungheria per l’accusa di aggressione a esponenti di estrema destra. È finita 306 a 305 la votazione sulla revoca dell’immunità parlamentare, ma a finire sul banco degli imputati è stato il PPE, reo secondo diversi osservatori di avere di fatto salvato l’esponente di AVS grazie a una nutrita pattuglia di eurodeputati che, nel segreto dell’urna, ha tradito l’indicazione ufficiale che era di votare a favore del processo.
Della “colpevolezza” dei popolari sono convinti i Patrioti, il gruppo di destra in cui siedono i leghisti. Sono volate accuse pesanti, rispedite al mittente, per la verità senza troppa convinzione.
Se gli esponenti popolari rilevano che c’erano numerose assenze anche fra le fila dei Patrioti, alla fine è Maurizio Gasparri a ipotizzare che il salvataggio sia venuto a opera dei rappresentati PPE eletti in Polonia, in funzione anti-Orbán: nessuna soddisfazione al grande amico di Mosca.
Si tratta, in buona sostanza, della conferma che un problema dentro il PPE esiste, ed è grosso. Non è chiaro cosa sia oggi questo raggruppamento, che non solo è il più numeroso nell’emiciclo di Strasburgo, ma è anche il partito di Ursula von der Leyen, puntello quindi dell’attuale fragile Commissione UE.
Manfred Weber, presidente del partito e pure capogruppo a Strasburgo, aveva dato indicazioni precise: si al processo, perché le regole si rispettano. I franchi tiratori ci sono stati, e sono misurati nell’ordine delle diverse decine, forse una settantina. Magari non tutti del PPE, ma la maggior parte viene da qui.
Intendiamoci: le famiglie politiche europee sono raggruppamenti tutt’altro che solidi. Non solo il PPE, ma tutti quanti, socialisti, liberali, sinistra. Ma lo stato gassoso in cui versa il partito di maggioranza relativa autorizza i giudizi più diversi e pure qualche preoccupazione.
Giudizi come quello di Giorgia Meloni, a lungo leader dei Conservatori europei, che con una punta di malizia vede il PPE ondeggiare e talvolta avvicinarsi ai Conservatori, e non il contrario. Parole che rappresentano un ulteriore indice della confusione in cui versa oggi il PPE.
Oggi l’Europa versa in una crisi profonda. È sfidata da ogni parte, dall’autocrazia putiniana da un lato, alla politica muscolosa di Trump dall’altro. Una sfida mortale, a cui fatica a opporre risposte credibili. Ha bisogno di scelte di fondo chiare e rapide, magari per invertire la rotta su temi chiave come la svolta green delle automobili, tema su cui sempre più forte è la pressione dell’industria europea dell’automotive, e anche dei sindacati.
Viene difficile oggi immaginare che decisioni di tale portata possano avvenire – o essere corrette – senza un PPE compatto, che possa spingere la von der Leyen a correggere la rotta. C’è poi la sfida della difesa (Readiness 2030), e quella di un bilancio tutto da rivedere, tagliando in modo sensibile gli stanziamenti per l’agricoltura, così da avere fondi da destinare alle nuove emergenze.
Il futuro dell’Europa, vista la crisi politica in cui si sta arrotolando la Francia di Macron, potrebbe essere definito se agiranno in modo coordinato le due leadership che oggi sembrano più forti, Meloni e il cancelliere tedesco Merz.
A quel punto le strade del PPE e dei conservatori potrebbero davvero incrociarsi, ed essere determinanti. Se però i popolari continuassero a mostrarsi così divisi, e senza le idee chiare, a pagare il conto, alla fine, sarebbe la costruzione europea, che di un PPE compatto ha oggi più bisogno che mai. Von der Leyen è avvisata.
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