L'accordo su Gaza non è l'esito di un'improvvisazione delle ultime ore, ma il punto di approdo di un lavoro diplomatico sotterraneo, lungo almeno 9 mesi
Quando Donald Trump ha annunciato il suo “piano di pace in 20 punti” per Israele e Gaza, alla fine di settembre 2025, il mondo ha visto soltanto la parte emersa dell’iceberg. Dietro quella dichiarazione, orchestrata con grande teatralità a New York, infatti, si celava un lavoro di mesi, fatto di consultazioni riservate, voli notturni, colloqui informali e compromessi sussurrati tra leader che ufficialmente non si parlavano più.
Chi sostiene che le recenti manifestazioni di piazza esplose nelle capitali europee e l’impatto simbolico della Flotilla abbiano avuto un ruolo determinante nell’elaborare un piano di pace tra Israele e Gaza trova smentita nei fatti: la lunga azione diplomatica era iniziata ben prima delle proteste e della partenza della Flotilla.
Quando i cortei riempivano le piazze, le linee essenziali dell’accordo erano già state discusse, limate e condivise tra Washington, Gerusalemme, Il Cairo e Doha. Le trattative segrete si erano sviluppate per mesi, lontano dagli slogan e dal clamore pubblico. La vera spinta verso la pace non è arrivata dalla pressione delle strade, ma da una diplomazia silenziosa e ostinata, iniziata nel cuore dell’inverno e culminata solo in autunno.
Al centro di questa macchina discreta c’è Steve Witkoff, imprenditore immobiliare e consigliere non ufficiale di Trump, uomo dotato di una rete di contatti che spazia dal Golfo a Tel Aviv. Secondo un’inchiesta pubblicata da Time, Witkoff ha cominciato a occuparsi del “dossier Gaza” già a gennaio 2025, poche settimane dopo l’insediamento del nuovo presidente americano. Il suo obiettivo era costruire, mattone dopo mattone, la base di un accordo credibile che potesse mettere fine al conflitto riacceso nel marzo precedente.
Dalle prime settimane del 2025, Witkoff si muove in modo quasi sotterraneo. Vola tra Gerusalemme, Doha e Il Cairo, riapre canali chiusi da tempo e stabilisce contatti informali con intermediari qatarioti ed egiziani. È lui a preparare il terreno per quella che in seguito sarà chiamata “la via americana alla tregua”: un piano che unisca sicurezza per Israele, garanzie umanitarie per Gaza e un coinvolgimento stabile dei Paesi arabi nella ricostruzione.
In questa fase iniziale, Witkoff si tiene lontano dai riflettori e agisce come “emissario di fiducia” di Tump, con un linguaggio pragmatico e un approccio più imprenditoriale che diplomatico. La Casa Bianca di Trump, reduce da mesi di isolamento internazionale, non può permettersi un fallimento.
A primavera 2025, la rete di contatti di Witkoff si intreccia con quella di Jared Kushner, genero dell’ex presidente e già architetto degli “Accordi di Abramo”. È in questa fase che il lavoro acquista un profilo più strutturato. Kushner porta esperienza negoziale e un linguaggio familiare ai leader del Golfo, mentre Witkoff continua a mantenere il rapporto diretto con Netanyahu e gli uomini chiave del governo israeliano.
Le riunioni si moltiplicano. In alcune occasioni, i due mediatori operano in parallelo: Kushner cura i contatti arabi, Witkoff quelli israeliani. Secondo fonti citate da Axios e The Guardian, tra giugno e agosto 2025 la bozza del piano comincia a prendere forma, passando da una decina di linee guida a un articolato documento in 20 punti.
La vera svolta arriva nel mese di settembre 2025, durante l’Assemblea generale delle Nazioni Unite a New York. È qui che Witkoff e Kushner presentano informalmente il piano ai rappresentanti di Egitto, Qatar e Turchia, ricevendo feedback positivi e qualche richiesta di modifica.
Nei corridoi del Palazzo di Vetro, tra incontri riservati e cene private, si definiscono i passaggi più delicati: il ritiro graduale delle truppe israeliane da Gaza, il meccanismo di scambio tra ostaggi israeliani e prigionieri palestinesi, e la creazione di un fondo di ricostruzione regionale supervisionato da una commissione internazionale.
In quei giorni, testimoni diplomatici parlano di un’atmosfera “febbrile ma costruttiva”. Trump, che prepara l’annuncio, chiama personalmente Netanyahu più volte a settimana. Dal canto suo, il premier israeliano alterna resistenze e aperture, preoccupato per le ricadute politiche interne ma consapevole della pressione americana e della stanchezza della popolazione.
Tra il 22 e il 29 settembre, il testo del piano subisce le ultime revisioni. Kushner e Witkoff coordinano gli emendamenti insieme a funzionari israeliani e mediatori arabi; il 29 settembre, il documento definitivo è pronto.
Dal segreto all’annuncio di Trump che lo presenta come “un piano per la pace vera, non per la tregua”, sottolineando la collaborazione con Israele e l’appoggio del mondo arabo.
In realtà, dietro ogni punto c’è un compromesso faticosamente raggiunto: Israele ottiene garanzie di sicurezza e il riconoscimento del suo diritto alla difesa; Hamas, attraverso mediatori egiziani e qatarioti, ottiene aperture su aiuti umanitari e ricostruzione; i Paesi arabi si assicurano un ruolo politico nella gestione del dopo-guerra.
Il 9 ottobre 2025, a Sharm el-Sheikh, le delegazioni israeliana e palestinese firmano la fase uno del piano sotto l’egida dell’Egitto. È il culmine di un lavoro iniziato in silenzio nove mesi prima, che unisce diplomazia tradizionale e pragmatismo da tavolo d’affari.
Secondo il Washington Post, le ultime 96 ore prima della firma sono state “un concentrato di telefonate, bozze riscritte e voli di emergenza tra Il Cairo e Doha”. Ma la sostanza resta: per la prima volta in anni, Israele e Hamas accettano un percorso condiviso, almeno sulla carta.
“È stato un miracolo diplomatico, ma anche un equilibrio provvisorio”, ha scritto The Guardian. “La pace costruita in nove mesi può essere distrutta in nove ore”.
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