Nella Blue economy si sconta un forte gender gap, nonostante le risorse che sono state messe in campo negli ultimi anni
Quando pensiamo all’economia marittima, il nostro pensiero si focalizza sulle figure maschili che conosciamo, come marinai, pescatori o addetti alle navi cargo. Ma esiste una storia meno conosciuta, che riguarda le donne e il loro rapporto con il mare, fatta di impegno e ostacoli. Sì, perché anche le donne lavorano nel settore della pesca, nella gestione delle risorse marine, nella protezione ambientale e in molti altri campi relazionati all’economia del mare.
Infatti, anche se nell’Ue la Blue Economy è un settore importante che genera il 2,4% del Pil e dà lavoro a più di 5 milioni di persone, permane un problema profondo quanto l’oceano: il divario di genere. In Italia, l’Economia del mare, secondo l’ultimo report dell’Osservatorio Nazionale (Ossermare), vale il 11,3% del Pil e dà lavoro a 1 milione e 90 mila persone, ma solo 218.000 sono donne, ovvero il 20%, e sono collocate nei ruoli a più bassa professionalità, escluse dai ruoli dirigenziali o tecnici.
I dati dell’Istat più recenti ci dicono che sono solo il 12% le donne italiane che lavorano in settori come la cantieristica, la pesca e la gestione delle risorse marine. Un dato che paragonato ad altre industrie ci fa capire come il mare rimanga una roccaforte maschile.
La mancanza di donne nei ruoli dirigenziali nella Blue Economy rispecchia il bias di genere dell’economia italiana, dove le donne ricoprono circa il 42,6% della forza lavoro, ma occupano solo il 20% delle posizioni chiave. Il problema è quindi culturale in un Paese che ha visto per lungo tempo il ruolo femminile relegato alla cura delle incombenze domestiche o di educazione scolastica e di caregiver.
Nelle professioni scientifiche e tecniche il bias di genere è ancora più marcato. Negli ambiti cruciali dell’economia del mare, come ingegneria o scienze ambientali, lavora appena il 9% delle donne, mentre le vediamo impegnate principalmente in settori come il turismo lungo la costa o la gestione degli approdi, dove gli stipendi sono bassi e le possibilità di carriera sono limitate.
In Europa le politiche di inclusione fino d oggi hanno funzionato molto poco e bisogna chiedersi il perché. Si pensi al programma “Women in the Blue Economy” lanciato dalla Commissione europea nel 2020. L’idea era quella di fare in modo che più donne trovassero lavoro nei settori legati al mare. Sono stati erogati fondi per oltre 20 milioni di euro ai 12 Paesi dell’Unione europea, come l’Italia, la Francia e la Spagna che hanno aderito al progetto.
Oggi dopo 5 anni possiamo dire che i risultati sono stati sconfortanti visto che, nonostante la formazione e i programmi di sostegno, soltanto una piccola parte delle donne che ha partecipato riesce a trovare un posto stabile nei settori tecnici e decisionali della marina. Stiamo parlando appena di un 5%.
Per poter indirizzare il cambiamento è essenziale chiedersi quali siano i principali ostacoli all’empowerment femminile in questo settore. Una delle ragioni principali è che si tratta di un comparto economico legato a tradizioni e pregiudizi di vecchia data, specialmente in settori come la cantieristica e la pesca, dove storicamente non ci sono mai state donne.
Uno studio dell’Ocse mostra che il 70% delle donne che lavorano in questo settore ritenga che i maggiori ostacoli siano i turni di lavoro rigidi e la scarsa possibilità di raggiungere posizioni di leadership.
Ci sono tuttavia alcune iniziative virtuose promosse da poche regioni italiane che fanno ben sperare che le cose possano cambiare. Ad esempio, in Liguria è partito un progetto di formazione pensato specificamente per giovani donne, per inserirle nei settori legati al mare come la gestione dell’ambiente e le energie pulite. Questo programma chiamato “Green and Blue Women”, finanziato dall’Unione europea, ha aiutato oltre 200 donne a trovare posto nei comparti più avanzati del settore marittimo negli ultimi cinque anni. È un inizio, perlomeno.
Anche in Toscana si è avviato un progetto davvero interessante chiamato “Women in Sea”. Il risultato sinora è piuttosto interessante: ben il 40% delle donne che vi hanno preso parte ha già trovato un lavoro dirigenziale nella gestione delle risorse del mare. Questo dimostra chiaramente come iniziative di questo tipo possano veramente cambiare le cose anche se non sono sufficienti a stimolare un vero e proprio cambiamento che è in primis culturale.
A questo scopo è fondamentale una presa di coscienza a livello politico e un impegno che favorisca l’inclusione e dia più opportunità alle donne, che significa non solo aumentare la partecipazione femminile: è fondamentale che le donne abbiano la possibilità di ricoprire ruoli dirigenziali e posizioni apicali, sia a livello manageriale che politico.
Questo si concretizza in investimenti significativi, su tutto il territorio, in educazione e formazione, in politiche di gestione del personale più inclusive, come il congedo parentale, e in una maggiore rappresentanza femminile nei Consigli di amministrazione, come le quote rosa. Tutte iniziative che in altri settori sono già in atto, ma che non toccano ancora il settore marittimo dominato da sempre dagli uomini.
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