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Home » Economia e Finanza » IL CASO/ 1. La “folle” anomalia italiana che sfida le bolle finanziarie

  • Economia e Finanza

IL CASO/ 1. La “folle” anomalia italiana che sfida le bolle finanziarie

James Charles Livermore
Pubblicato 26 Novembre 2010
Italia_Lente_IngrandimentoR400

Foto Imagoeconomica

Tutte le grandi economie mondiali sembrano assomigliarsi. JAMES CHARLES LIVERMORE spiega in cosa riesce a distinguersi l’Italia

Tra i tanti aspetti dell’attuale crisi, ce n’è uno che sembra essere ormai irreversibile. Penso alla connessione sempre più stretta tra le economie nazionali, un fenomeno che nel tempo ha ricevuto nomi e giudizi diversi. C’è chi l’ha definita globalizzazione e chi lo chiama neocolonialismo. Ci sono fan accaniti e acerrimi nemici.


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Per quanto mi riguarda, quel che vedo sui mercati valutari mi ricorda un incidente domestico che prima o poi è capitato a tutti. Come uno di quei maglioni di lana, incautamente lavato a temperatura troppo alta, il mappamondo moderno si è ristretto dalla sera alla mattina. E mentre economie agli antipodi si ritrovano a convivere forzatamente nel condominio della globalizzazione, sui mercati valutari si condensano le nubi di una guerra monetaria. In questo scenario – che nulla invidia alla Los Angeles di Blade Runner – un solo paese si ostina ad affermarsi come una strana e, per certi aspetti, folle anomalia. È l’Italia, ovviamente.


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Qualche dato può aiutare a mettere a fuoco la situazione. Nel 2010, il tasso di disoccupazione italiano è atteso intorno all’8,5%. Ben al di sotto del 21% della Spagna, del 13% dell’Irlanda e inferiore al 10,1% e 9,2%, rispettivamente, di Francia e Germania. Ancora più sorprendente il disavanzo primario del bilancio pubblico: quest’anno il dato atteso si asseterà intorno allo 0,3% del Prodotto interno lordo. Giusto per dare un’idea delle grandezze, lo stesso disavanzo sarà dell’8,6% in Irlanda, 8,1% in Spagna, 8,3% nel Regno Unito. Non andrà meglio oltralpe, dove si stima un disavanzo pari al 4,8% del Pil, mentre in terra teutonica il risultato sarà leggermente migliore (il passivo dovrebbe arrivare al 2,5% del Pil). Insomma, pure tra i cugini europei l’Italia sembra fare storia a parte.


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A braccetto con i numeri incoraggianti, arrivano i soliti indicatori oltre il livello di guardia, rapporto debito/Pil in primis. Sui parametri negativi si è scritto molto, spesso con un allarmismo che non ha certo contribuito a tranquillizzare i mercati. Anche i valori in rosso, tuttavia, confermano l’osservazione iniziale: nel bene e nel male il sistema Italia è un animale strano, una bestia rara nel giardino zoologico delle economie occidentali.

La domanda è in fondo facile da formulare: in vent’anni di zero crescita, mentre il mondo galoppava, e in tre anni di ottima sopravvivenza al collasso generale, cosa è accaduto in Italia? È germogliato un modello di valore o è stato semplice immobilismo?

Il lavoro di un economista francese, Jacques Friggit, può aiutare a rispondere. Esperto del settore immobiliare, Friggit ha costruito un modello economico basato su due sole variabili: il costo di acquisto medio di un’abitazione e il reddito medio di un nucleo familiare.

Fonte: Ministero francese dell’ambiente (CGEDD, consiglio generale per lo sviluppo sostenibile)

Approfittando degli ampi archivi carolingii e della celebre burocrazia d’oltralpe, l’economista è riuscito a raccogliere dati sull’immobiliare parigino dal Medioevo in poi. Per la Francia il modello ha incamerato le transazioni dal 1800 a oggi. L’obiettivo, semplice quanto ambizioso, è di monitorare la crescita di un sistema economico (rappresentata dai prezzi immobiliari) in rapporto alla sostenibilità della crescita stessa (rappresentata invece dal reddito del nucleo familiare). Come evidenziato dal grafico precedente, l’indice ha come base il 1965 (si assume cioè che il rapporto sia uguale a 1 in quell’anno).

 

Il motivo di tale scelta non è arbitrario: dopo due guerre mondiali, intervallate dalla crisi del ‘29, e terminato il boom edilizio del secondo dopoguerra, l’economia francese degli anni Sessanta (ma vedremo fra poco che il modello può essere applicato a tutti i paesi occidentali) si avvia a una crescita stabile per la prima volta nel Novecento.

 

A rovinare i sogni di una calma piatta ci penseranno le crisi inflazionistiche degli anni Settanta, ma ai fini dell’analisi le turbolenze successive al 1965 rappresentano un interessante campo di ricerca: nonostante le crisi petrolifere, il rapporto tra costo abitativo e reddito del nucleo familiare resta compreso tra lo 0,9 e l’1,1 dal 1965 fino al 1990 (il cosiddetto “Tunnel di Friggit”, un’area di relativa stabilità). In sintesi, l’economia francese sembra essere cresciuta con stabilità dal secondo dopoguerra fino alla caduta del muro di Berlino. Lo stesso modello, applicato questa volta a Gran Bretagna e Stati Uniti, conferma il medesimo andamento:

 

 

Fonte: CGEDD

Il primo boom economico a cui non segue una ricchezza dei nuclei familiari è proprio quello successivo al crollo del muro. La seconda, gigantesca, bolla senza ricchezza per le famiglie inizia nel 2000 e raggiunge il suo picco nel 2007, quando la crisi in cui ancora oggi annaspiamo fa capolino sui mercati.

 

C’è un problema nelle economie occidentali. È un problema che di emergenza in emergenza assume nomi diversi: c’è stata la bolla delle .com, poi il crollo del potere di acquisto, la crisi di liquidità e il ricorso forsennato al debito. Ho l’impressione che tutte queste osservazioni siano frammentarie. Cioè, frammenti, pezzi di un problema che ha mandato in frantumi il mondo in cui abbiamo vissuto per moltissimo tempo.

 

In un precedente articolo ho osato definirla una crisi antropologica e, sconfinando dal mio campo di competenze, ho scritto che ad andare in frantumi, nell’epoca della tecno-finanza, è stata la persona. Mentre esistono modelli per il consumatore, l’investitore, il risparmiatore e il lavoratore, l’economia attuale non sa più rivolgersi alla persona. E il grafico di Friggit sembra confermarlo: da vent’anni a questa parte siamo incapaci di creare valore, se non attraverso bolle che gonfiano profitti a scapito della stabilità.

 

E così torniamo alla domanda iniziale. Dalle macerie della crisi è emerso un nuovo modello di valore? Guardando al mondo delle Pmi, forse il tratto più caratteristico del sistema economico italiano, si direbbe di sì. Nelle altre economie occidentali, le pratiche che vanno affermandosi sembrano essere accomunate da un diffuso sentimento di sfiducia verso l’iniziativa personale. Controlli più severi e massicce assunzioni nei dipartimenti d’ispezione interna (i cosiddetti “internal auditors”, incubo di ogni trader) sono una costante in crescita continua, mentre sul fronte regolamentare non passa trimestre senza che un nuovo comitato annunci la pubblicazione di nuove regole (di volta in volta più severe, almeno nelle intenzioni).

 

Un po’ come il celebre aneddoto del calabrone, secondo queste teorie, le Pmi non potrebbero mai spiccare il volo. Eppure le storie di successo, pure in questa difficile congiuntura, non mancano. Dove sta il trucco? A mio parere, nessun trucco: solo la capacità di dare credito. Alle persone, finalmente.


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