CRISI/ Pelanda: c’è una riforma “tedesca” che farebbe bene all’Italia

- Carlo Pelanda

Non basterà un incremento del Pil dell’1% a fine anno: senza una riconfigurazione radicale del modello economico, l’Italia è destinata alla crisi permanente. Il commento di CARLO PELANDA

operaio_siderurgiaR375 Foto: Imagoeconomica

La ripresa dopo la recessione 2008-2009 resta lenta. Si sperava, in primavera, che la sua accelerazione in America aumentasse di più i volumi della domanda globale e quindi, indirettamente, le nostre esportazioni. Ma l’economia americana è ancora in riparazione e gli stimoli economici dell’Amministrazione Obama sono stati mal indirizzati, non sortendo grandi effetti e ci vorranno un anno o due prima che locomotiva americana corra. Da noi la stagione turistica è andata così e così.

In sintesi, il traino esterno e quello stagionale per la crescita italiana non sono così forti da farci sperare di finire l’anno con un incremento del Pil superiore all’1%. E potrebbe essere qualcosa di meno. Da un lato, tale proiezione non deve indurre pessimismo perché comunque la ripresa, lenta che sia, c’è. In particolare, il sistema industriale italiano resta vitale e la crescita quasi a boom della produzione industriale nei mesi scorsi lo dimostra. Dall’altro non è rassicurante l’immagine di un’economia che cresce così poco dopo aver perso ben il 6% del Pil nella crisi. Evidentemente il mercato interno è troppo rigido per fare una buona crescita propria e integrare quella trainata dall’esterno, così rendendoci un po’ meno dipendenti dall’aleatorietà della seconda. Infatti si sta avvicinando il momento in cui non sarà più rimandabile la riconfigurazione sostanziale del modello economico italiano per dargli più capacità di far crescere consumi ed investimenti interni.

I consumi sono stagnanti perché i salari sono troppo bassi e tassati ed i redditi da lavoro indipendente non trovano molte opportunità per moltiplicarsi. Gli investimenti sono meno di quello che potrebbero essere perché disincentivati dalle tasse e dalle regolazioni eccessive, in particolare del mercato del lavoro. Gli investimenti dall’estero sono minimi perché troppe altre nazioni offrono condizioni sistemiche migliori ad un investitore.

È ovvio che queste condizioni, combinate con una demografia stagnante, rendono tendenzialmente decrescente la creazione di ricchezza nel mercato interno. Finora tale problema è stato compensato con l’export e aumentando il debito pubblico. Ma la seconda cosa si potrà fare sempre di meno, visto il nuovo requisito delle euronazioni di raggiungere la condizione di pareggio di bilancio, cioè di deficit zero, e la prima dipende troppo dalle contingenze del mercato mondiale.

Pertanto appare ben motivato avvertire che o l’Italia sarà in grado di riqualificare il proprio modello economico per renderlo più crescente e competitivo, oppure resterà intrappolata in un processo di perdita progressiva della ricchezza. I cambiamenti da fare non sono né piccoli né indolori. Una riduzione efficace, in senso stimolativo, delle tasse implica un forte taglio alla spesa pubblica e quindi delle situazioni protette finanziate dai denari fiscali. Uno dei più importanti incentivi per gli investimenti è quello di rendere flessibile il mercato del lavoro. Per esempio, negli anni ’90 la Germania permise alle imprese di licenziare il personale in eccesso, rendendole così più produttive, caricando sul bilancio dello Stato l’onere di finanziare i disoccupati. Fu una scelta che rafforzò il sistema industriale tedesco ed allo stesso tempo non ridusse le garanzie economiche della popolazione. L’Italia, che protegge il posto del lavoro indipendentemente dalle necessità dell’impresa, dovrebbe imitarla.

In conclusione, ci sono idee tecniche ed esempi su cui basare un progetto di riqualificazione dell’economia italiana, ma manca ancora una politica che lo metta in priorità come dovrebbe.

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