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Home » Economia e Finanza » IL CASO/ I finti “pilastri” che stanno facendo crollare l’Italia

  • Economia e Finanza

IL CASO/ I finti “pilastri” che stanno facendo crollare l’Italia

Nicolò Boggian
Pubblicato 27 Novembre 2012
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Infophoto

Il nostro Paese, dice NICOLÒ BOGGIAN, ha vissuto sopra le sue possibilità. La sua natura antimeritocratica, familistica e corporativa, non gli ha consentito di reggersi sulle sue sole forze 

Da quando parliamo di meritocrazia e cerchiamo di diffonderne il reale significato e la rivoluzionaria portata, ci è chiaro come molti spieghino la crisi in Italia come se fosse stata determinata dalla crisi internazionale e non da fattori interni: una gestione finanziaria speculativa avrebbe indotto a sacrificare lo stato sociale “buono”, causando la protesta dei popoli di tutto il mondo. Questa visione, che certamente ha una consistente portata a livello internazionale, male si applica al caso italiano. In Italia questa teoria viene utilizzata in modo opportunistico da chi cerca di scansare la responsabilità di una gestione politica e amministrativa dissennata del passato e da chi non conosce il nostro Paese e la sua economia.


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In Italia l’impatto della crisi finanziaria ha avuto invece l’effetto benefico di far emergere i nodi di un’organizzazione sociale iniqua, corporativa e familistica, che non può non andare a schiantarsi in un mercato globale, nel quale scontiamo anni di ricchezza, che ci hanno favorito oltre misura e ci hanno consentito di accumulare privilegi insostenibili oltre a diritti legittimi.


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La verità è che se la crisi ha delle motivazioni finanziarie esogene, non si può non riconoscere che il finanziamento dall’estero è stato il principale motivo del nostro boom economico. Siamo cresciuti a debito e ora che la crisi dei mercati finanziari e la globalizzazione hanno cambiato il contesto, i nostri creditori – in passato anche “spacciatori di debito” – vogliono indietro i loro soldi o quantomeno mirano ad avere buone possibilità di ottenerli in futuro.

La realtà è che il nostro Paese ha vissuto sopra le sue possibilità. La sua natura antimeritocratica, familistica e corporativa non gli ha mai consentito di reggersi sulle sue sole forze e ci ha condotto a una crisi non solo economica, ma innanzitutto etica e culturale, in cui le nuove generazioni pagheranno l’incapacità del sistema di programmare un futuro sostenibile. Il nostro posizionamento è pessimo nei ranking internazionali su elementi centrali come la corruzione, la trasparenza, la libertà d’impresa, la mobilità sociale, l’efficienza della spesa pubblica. Le organizzazioni internazionali ci segnalano ciascuna di queste questioni da decenni, a testimonianza di come il nostro Paese sia male organizzato da un punto di vista economico e sociale. 


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Lo stato sociale italiano ha una natura profondamente diseguale e inefficiente, tanto da non riuscire a distribuire seriamente la ricchezza e a non accompagnare la vita economica, soffocandone gli elementi di valorizzazione del talento e del merito.

La verità è che la colpa della crisi nel nostro Paese è nostra e, se vogliamo permetterci di essere solidali e non lasciare indietro nessuno, dobbiamo scatenare al più presto le energie del merito e del talento. Cinquant’anni di successi economici derivano dal privilegio di esserci seduti tra i potenti della Terra e ora che il mondo si è ampliato dobbiamo rapidamente tornare a competere con quei paesi che stanno crescendo in maniera esponenziale, animati da un desiderio di rivincita e rinascita.

Non si può non dire che le banche non danno credito, che non abbiamo materie prime e che non vogliamo sacrificare i nostri millenari diritti umani e sociali. Sarebbe però molto più serio e costruttivo accettare un dato di fatto e riprendere a lavorare in modo efficiente, etico e meritocratico, invece di cercare scuse e attenuanti. Non possiamo più permetterci il lusso di false illusioni e di cattivi maestri e, pur consci dei nostri diritti e orgogliosi di essere italiani, dobbiamo ragionare da cittadini nel mondo, con i limiti e i vantaggi che questo comporta.

Non dobbiamo avere paura di mettere in discussione in modo radicale parti molto ampie del nostro diritto, della Costituzione, della democrazia e dell’architettura dello Stato, oltre che della nostra stessa cultura.


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