FINANZA/ 1. Facebook, una “truffa” da 100 milioni delle banche
Il titolo di Facebook continua a far segnare forti perdite. MAURO BOTTARELLI spiega come le banche d’affari siano riuscite a sfruttare la situazione per guadagnare 100 milioni di dollari

Cosa succede a Facebook? Lunedì il titolo del social network è sceso sotto quota 19 dollari per azione, dopo che giovedì della scorsa settimana aveva registrato il terzo volume di scambi da quando è quotato, precipitando sotto quota 20 dollari per azione e inanellando un -10% in soli due giorni di contrattazioni. Il perché di questo tonfo è presto detto: giovedì scordo è terminato il periodo di lock-up, ovvero il divieto di vendita da parte di manager e dipendenti del gruppo. Appena terminato, tutti di corsa a vendere: non c’è che dire, un bel segnale di fiducia verso l’azienda per cui si lavora!
Pensate che Peter Thiel, co-fondatore di PayPal e uno dei manager di Facebook, ha venduto 20 milioni di azioni del social network a un prezzo medio di 20 dollari ciascuna per una transazione da circa 400 milioni di dollari. Il co-fondatore di PayPal, uno dei primi investitori in Facebook, aveva già venduto 16 milioni di azioni durante l’Ipo di maggio: nel 2004 Thiel aveva investito in Facebook, acquistandone il 10%. Ulteriori lock-up scadranno poi a ottobre, novembre, dicembre e il prossimo maggio, con il possibile ingresso sul mercato di 1,64 miliardi di azioni. Insomma, dal collocamento del 18 maggio scorso, il titolo ha perso il 48% del valore ed è andato in underperformance contro tutti i titoli trattati su Dow, S&P 500 e Nasdaq: il peggiore. In conseguenza di questo, anche il market cap è crollato letteralmente: dalla valutazione folle di 104 miliardi di dollari al momento della prezzatura del collocamento, in tre mesi il valore di mercato di Facebook è sceso di qualcosa come 50 miliardi di dollari.
Da più parti si leggono intemerate contro le banche che hanno fatto soldi con il collocamento delle azioni: mi viene da ridere. E’ il loro lavoro, collocano e per questo hanno diritto a commissioni e fees, per l’esattezza hanno ottenuto 176 milioni di dollari per il collocamento di 16 milioni di dollari di titoli. Avrebbero per caso dovuto farlo gratis per la bella faccia di Mark Zuckerberg? Certo, Facebook è stato il più chiaro caso di “pump&dump” per un titolo pre-Ipo, ovvero gonfiare il valore della capitalizzazione per giungere a un prezzo spropositato dell’azione, ma a vostro modo di vedere è peggio questo o essere così stupido da non accorgersene e pensare che Facebook valga davvero 104 miliardi di dollari e comprarne azioni a 38 dollari? Non mi dispiace per nulla per chi ha già visto dimezzato il proprio investimento, proprio per nulla: se uno ama farsi spennare, poi non pianga.
Il problema morale che riguarda le banche, è un altro invece: e dico morale perché quanto stanno facendo è assolutamente in loro potere e non viola la legge. Mentre gli investitori hanno già perso 8 miliardi di dollari, le banche collocatrici ne hanno già guadagnati altri 100. Come? Shortando il titoli di Facebook, ovvero vendendo azioni del social network di cui non sono in possesso nell’attesa che il prezzo crolli ancora quando toccherà ricomprarle per chiudere la posizione. Tecnicamente è uno short, ma siccome sarebbe brutto ammettere di scommettere contro i propri clienti, ovvero sperando nel crollo del titolo, ciò che stanno facendo le banche è differente (tra l’altro lo short porta con sé il rischio di perdere soldi se il titolo sale e i banchieri odiano perdere soldi) e risponde all’esotico nome di “overallotment option”, meglio nota a Wall Street come “green shoe”, una pratica molto diffusa nei casi di Ipo.
Il meccanismo consente alle banche di vendere un 15% di azioni in più rispetto a quanto concordato nell’Ipo, un qualcosa che di fatto dovrebbe permettere di far incontrare in maniera più efficace domanda e offerta e ridurre la volatilità del prezzo in Ipo. Inoltre, l’opzione consente alla banca di comprare titoli nell’after market. In parole povere, quando sembra esserci eccesso di domanda di titoli nell’Ipo, il sottoscrittore ha la possibiltà di vendere il 15% in più della quantità concordata in precedenza. Vendendo questi titoli, la banca prende però una posizione short sull’azione, visto che non possiede fisicamente quei titoli.
Se la banca operasse in questo modo in regime di “naked short”, ovvero vendendo azioni che non ha avendo il diritto di comprarle più tardi a un prezzo specifico, prenderebbe un serio rischio, visto che se il titolo sale, la banca dovrà pagare molti soldi per coprire la posizione. Ma attraverso la “overallotment option” la banca può comprare un altro 15% di azioni dalla compagnia al prezzo dell’Ipo e venderle in regime di Ipo senza prendere il rischio di dover coprire in caso di aumento del prezzo. Inoltre, alla banca vengono pagate in pieno le commissione sugli extra-titoli venduti se esercita l’opzione, quindi ha un incentivo a vendere senza preoccuparsi di quale sia l’eventuale eccesso di domanda. Se il prezzo sale, nessuna paura: grazie all’opzione, la banca può coprire la sua posizione short acquistando le azioni al prezzo dell’Ipo.
E se invece, dopo l’Ipo, il prezzo del titolo crolla, come nel caso di Facebook? Allora la banca fa davvero i soldi, grazie alle commissione sull’Ipo, shortando il titolo al prezzo dell’Ipo e poi ricomprandolo quando il valore è sceso. Non è un caso che nella vicenda di Facebook i sottoscrittori abbiano supportato il titolo nel primo giorno di contrattazione, salvo poi lasciarlo al suo destino di calo continuo, coprendo le posizioni short create attraverso l’overallotment option all’atto dell’Ipo a un prezzo più basso.
A oggi, questo giochino ha fruttato alle banche 100 milioni di dollari, il tutto mentre i gonzi che hanno investito in Facebook hanno già visto sparire il 50% dei loro soldi. Una strategia nella strategia per ricomprare poi le azioni per un tozzo di pane, magari già sapendo che Zuckerberg ha in cantiere progetti in grado di mettere le ali al titolo in un futuro prossimo? Non è da escludere. Ciò che è sicuro è che si tratta di una truffa. Legale, ma sempre una truffa.
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