Oramai siamo davvero alla farsa. Se infatti penso non sia mai esistito periodo storico in un cui la sconnessione fra tassi di mercato e fondamentali macro sia stata maggiore di quella attuale, i rendimenti dei bond della cosiddetta “periferia” europea fanno segnare nuovi minimi storici. E quando dico storici, non eccedo. Paesi fortemente indebitati e destinati a indebitarsi sempre di più come Italia, Spagna e Francia stanno infatti conoscendo sul mercato yields dei loro titoli decennali così bassi come non accadeva da 200 anni a questa parte! Già, Jim Reid di Deutsche Bank si è preso la briga di fare un’analisi storica dei trend dei rendimenti e ciò che è emerso è plasticamente raffigurato nel grafico a fondo pagina: Draghi ha di fatto compiuto il miracolo di comprimere gli spread a livelli mai visti pur non stampando, di fatto, una singola banconota. Il rendimento del decennale francese ha toccato un minimo intraday dell’1,654%, livello mai visto dal 1746, mentre il decennale spagnolo è ora al livello del 1789, mentre il nostro Btp ha toccato minimi simili soltanto per pochi mesi nel 1945. Insomma, un capolavoro assoluto.
I rendimenti dei titoli sovrani ci dicono una cosa sola: i loro detentori hanno la certezza che la Bce farà davvero “tutto ciò che serve” per difendere l’euro. Nient’altro. Non ci parlano infatti di fondamentali macro solidi, di traiettoria del debito in calo grazie a un forte aumento della crescita, di riforme strutturali per migliorare il mercato del lavoro: niente di tutto questo, quanto stiamo osservando è frutto del gioco di specchi dell’Eurotower e del prestigiatore Mario Draghi. Il quale con le sue parole e le sue promesse-minacce è riuscito a far confluire sull’eurozona un diluvio di soldi a costo zero garantiti dalle varie banche centrali del mondo, garantendo ai paesi più deboli una boccata di ossigeno che rischia però di tramutarsi in una dose di veleno.
La Spagna ha quest’anno bonds in maturazione per 102 miliardi di euro e 132 il prossimo, l’Italia ha una lista dei pagamenti che prevede 217 miliardi quest’anno e 248 il prossimo: così facendo, Draghi ha garantito ai governi dei due paesi di non doversi preoccupare troppo di attuare politiche e riforme necessarie, ha tolto pressione per così dire “darwinistica” agli Stati: vista così, sembra una cosa buona, ma siamo sicuri che nel medio termine non si trasformi in una bomba a orologeria? Non stiamo forse festeggiando un qualcosa che potremmo dover pagare a caro prezzo una volta che quei rendimenti diventeranno troppo bassi per il sottostante rischio strutturale che le economie dei paesi emittenti portano con sé?
Prendiamo l’Italia. Ieri l’Istat ha confermato, nella seconda lettura del Prodotto interno lordo, la contrazione preliminare diffusa il 15 maggio, registrando un calo del Pil, corretto per gli effetti di calendario e destagionalizzato, dello 0,1% nel primo trimestre dell’anno rispetto al quarto trimestre del 2013, mentre su base annua ha confermato la contrazione dello 0,5%. A livello tendenziale, l’ultimo valore positivo per la nostra crescita risale quindi al terzo trimestre del 2011, anche se l’Istat ha precisato che il rallentamento su base annua è stato il più contenuto dal quarto trimestre 2011. Rispetto al trimestre precedente, i principali aggregati della domanda interna hanno registrato un andamento differenziato, con un incremento dello 0,1% dei consumi finali nazionali e un calo dell’1,1% degli investimenti fissi lordi. Le esportazioni e le importazioni sono aumentate, rispettivamente, dello 0,8% e dello 0,3%.
Il calo congiunturale del Pil è stato dunque la sintesi di un incremento del valore aggiunto nel settore dell’agricoltura (+2,2%), di un andamento negativo nell’industria (-0,4%) e di una variazione nulla nel comparto dei servizi. In termini tendenziali, il valore aggiunto è aumentato dello 0,2% nell’agricoltura, mentre ha registrato variazioni negative in tutti gli altri comparti dell’economia (-0,5% nell’industria in senso stretto, -1,7% nelle costruzioni e -0,2% nei servizi). Dunque, dovremmo a questo il rendimento del decennale più basso dal 1945 a oggi? Per quanto chi detiene quella carta sovrana farà finta di non vedere questi numeri e si affiderà anima e corpo allo scudo di Mario Draghi e ai soldi del monopoli stampati dalle varie Fed e Bank of Japan?
So già cosa state pensando: perché Bottarelli non si gode il momento e guarda sempre al negativo che potrebbe arrivare? Perché, cari lettori, le crisi è meglio prevenirle che curarle. Anche perché con 2120 miliardi di euro di debito pubblico in continuo aumento, il Pil in negativo, le banche cariche di sofferenze e titoli di Stato per 430 miliardi, siamo il bersaglio perfetto per una bella ondata speculativa. E attenzione, la crisi dei mercati emergenti non è finita, ha solo perso intensità ma ci vuole poco perché riparta in grande stile, non dimenticando il focolaio sempre pronto a esplodere della crisi ucraina: come vedete, potenziali destabilizzanti a livello geofinanziario ce ne sono fin troppi e solo chi sta nelle stanze dei bottoni sa quando qualcosa potrà andare fuori controllo. Semplicemente perché lo decide lui, in base ai suoi interessi. Ma siccome faccio dell’onestà intellettuale una bandiera, non mi esimo dal dirvi che ieri è arrivato anche un dato positivo per l’Italia.
Dopo mesi di battute d’arresto, infatti, la produzione industriale è tornata a salire e ad aprile l’Istat ha rilevato un aumento dell’indice destagionalizzato pari allo 0,7% rispetto al mese precedente, mentre corretto per gli effetti di calendario ad aprile l’indice è aumentato, in termini tendenziali, dell’1,6%, registrando il rialzo annuo più alto dall’agosto del 2011. Gli economisti indicavano un aumento dello 0,4% mese su mese e dello 0,6% anno su anno. Nella media del trimestre febbraio-aprile la produzione è calata dello 0,1% sul trimestre precedente e guardando alla media dei primi quattro mesi dell’anno, la produzione è aumentata dello 0,8% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. In aprile l’indice destagionalizzato ha registrato variazioni congiunturali positive nei comparti dell’energia (+3,0%), dei beni di consumo (+2,2%) e dei beni intermedi (+0,5%), mentre ha segnato invece una variazione negativa il raggruppamento dei beni strumentali (-1,3%). Facendo poi riferimento alle sole attività manifatturiere, la produzione è aumentata dello 0,4%.
Bene, al netto del fatto che io continuo a trovare quantomeno inusuali i movimenti a molla dei prezzi dell’energia – cartina di tornasole dell’attività industriale -, capaci prima di crollare poi di rimbalzare senza che di fatto vi sia una reale ripresa in atto (vedi il dato del Pil), sapete quanto pesa la componente della produzione industriale sul Pil italiano? Il 18,8%, contro il 25,3% dell’agricoltura, il 27,9% di credito, attività immobiliari e servizi professionali e il 20,9% che risponde alla voce “altri servizi”. Dunque, di cosa stiamo parlando? Certo, è una componente importante, ma questo Paese è deindustrializzato da anni ormai e lo sarà sempre di più se da un lato ci tramutiamo in supermarket per lo shopping estero – che poi chiude o delocalizza – e dall’altro facciamo in modo che il gioco delle tre carte di Mario Draghi freni qualsiasi tipo di riforma necessaria, in ossequio allo spread più basso dal secondo dopoguerra.
Quale investitore serio, che guarda non solo i fondamentali macro ma anche le priorità dell’azione politica del Paese, potrebbe davvero investire – credendoci – nell’Italia quando scopre che il dibattito più acceso rimane quello sull’eliminazione del Senato o sugli 80 euro in busta paga? Nessuno, cari lettori, come vi dicevo all’inizio è solo caccia al rendimento, fino a quando i tassi saranno bassissimi, l’inflazione zero e le banche centrali sembreranno delle copisterie. Ma quanto può durare questo mondo sganciato dalla realtà? Ve lo dico chiaro, non ancora per molto. E quando ci si accalca verso l’uscita di emergenza, i più deboli e i meno veloci ci lasciano la ghirba.