SPILLO/ I numeri che “bocciano” euro e ripresa
Nell’ultima settimana di gennaio sono usciti due documenti di grande rilevanza. In realtà, sono tra loro molto differenti nella sostanza e nella corposità. Ce ne parla GIOVANNI PASSALI

Nell’ultima settimana di gennaio sono usciti due documenti di grande rilevanza. In realtà, sono tra loro molto differenti nella sostanza e nella corposità, ma qui ci permettiamo di paragonarli perché rispondenti a due visioni opposte della realtà sociale e soprattutto economica dell’Italia. I due documenti sono il mensile Congiuntura Flash del Centro Studi di Confindustria (Csc) e l’annuale Rapporto Italia di Eurispes.
Il primo di questi sparge ottimismo a piene mani. La motivazione di questo ottimismo è la valutazione delle conseguenze di tre elementi maturati in questi ultimi tempi. Questi tre elementi sono: la svalutazione dell’euro, favorevole alle esportazioni; la caduta del prezzo del petrolio; il terzo è il Qe deciso dalla Bce di Draghi, che immetterà nel circuito finanziario oltre 1100 miliardi di euro in diciotto mesi (da marzo 2015 a settembre 2016). Secondo il Csc, questo si traduce in un impulso per il Pil italiano del 2,1% per il 2015 e del 2,5% per il 2016. E queste sono stime che lo stesso Csc definisce prudenziali.
Quindi tutto bene? Niente affatto (purtroppo). Il Csc continua a guardare i dati come se fossero oro colato o dogmi di fede, usando le stesse lenti attraverso le quali ha sbagliato le previsioni di ripresa già in passato. Loro, come tanti economisti e politici insieme a loro (e pure usando i loro studi), hanno annunciato numerose volte negli ultimi sette anni l’arrivo della ripresa “tra sei mesi” oppure “all’inizio del nuovo anno”.
Basta riprendere, per esempio, il bollettino di ottobre 2013, nel quale prevedevano un inizio di recupero a fine 2013 e poi il Pil intorno al 0,5% per il 2014. Com’è noto, siamo in recessione (Pil a -0,3% per il 2014). E prevedevano la fine dell’aumento della disoccupazione (allora a 12,2%). E invece l’ultimo dato di dicembre è del 12,9%. E questa volta, cosa ci sarebbe di sbagliato? L’errore è in tutta la dinamica delle previsioni, poiché vengono stabilite relazioni lineari tra certi indicatori e l’andamento di tutta l’economia. Come già spiegato diverse volte nei miei articoli, l’economia è invece frattale e le relazioni tra gli indicatori e l’andamento dell’economia non è lineare, né stabile. Per questo sbagliano costantemente le previsioni. Non sono cattivi ragazzi che sbagliano, sono perversi perché perseverano nell’errore.
Ma in cosa consistono concretamente questi errori di valutazione? Cosa non considerano? Andiamo a vedere l’esempio del petrolio, uno degli elementi principali che secondo l’analisi del Csc dovrebbero rilanciare lo sviluppo italiano. Il calo del petrolio intanto vuol dire una cosa certa: l’azzeramento dei profitti delle imprese del petrolio (e talvolta la loro chiusura, come già sta accadendo negli Usa). Forse qualcuno potrà pensare che questa ricchezza si sta trasferendo nelle tasche di cittadini e imprese. Ma allora bisognerebbe spiegare come mai, secondo un recente bollettino dell’Unione petrolifera, il consumo di petrolio è in continuo calo e siamo tornati ai livelli di consumo di metà degli anni Sessanta. E il consumo dipende dalla crisi, non dal prezzo del petrolio. Tale prezzo infatti è calato del 55% da luglio 2014 a oggi, ma il prezzo della benzina solo del 10%. Mentre i consumi di benzina sono calati di oltre il 20% dall’inizio della crisi.
Si può pensare che oggi si consuma molto meno petrolio perché oggi le fonti di energia sono molto più diversificate di tanti anni fa. Ma se questo fosse vero (e in buona parte è vero) allora vuol dire che l’impatto della diminuzione del prezzo del petrolio sull’economia sarà veramente molto limitato. Inoltre, il crollo dei consumi sta provocando una caduta delle entrate per le esose tasse dello Stato (circa 1 euro su un prezzo di 1,5 euro al litro).
Ci sarebbe molto da dire anche sulla svalutazione dell’euro (che favorisce le esportazioni ma non riguarda il mercato interno) e sul Qe della Bce (che finisce al sistema bancario e quindi verrà utilizzato per ripianare temporaneamente i bilanci o per speculazioni finanziarie, non per l’economia reale). Ma preferisco invece raccontare la presentazione del Rapporto Italia 2015 di Eurispes, evento svoltosi nella splendida Sala Conferenze della Biblioteca Nazionale a Roma, evento al quale ho partecipato di persona.
Come già detto, il Rapporto Italia è un evento di Eurispes che non è lontanamente paragonabile al bollettino mensile de Centro Studi Confindustria, sia per l’ampiezza degli studi (sociali ed economici), sia per la profondità culturale e scientifica degli studi di Eurispes. Se qui mi permetto di paragonarli è solo per la profonda differenza di vedute. Il Rapporto Italia 2015 di Eurispes (un tomo da oltre mille pagine) è denso di dati e analisi della realtà; niente previsioni dunque, ma una spietata analisi della realtà. E proprio la realtà drammatica della situazione italiana è quella descritta fin dall’inizio, nella relazione del prof. Gianmaria Fara, presidente di Eurispes.
“Otto italiani su dieci (81,8%) ritengono che la situazione economica del Paese sia peggiorata nel corso degli ultimi 12 mesi. Più della metà è convinta che questo scenario continuerà a peggiorare nel corso di quest’anno. Il 47,2% delle famiglie non riesce ad arrivare a fine mese con le proprie entrate. Il 62,8% è costretto a utilizzare i propri risparmi per far quadrare il bilancio. Il livello di fiducia nelle Istituzioni è diminuito per quasi il 70% dei cittadini”.
Questa drammatica realtà si riflette ovviamente sui sentimenti dei cittadini nei confronti dell’Europa e dell’euro. Mentre un anno fa solo il 25% auspicava l’uscita dalla moneta unica, oggi tale percentuale è salita al 40%. “Quello che si registra è una sostanziale delusione delle aspettative che erano maturate nel corso degli anni, procurata soprattutto dalla mancanza di una effettiva integrazione, dalla crisi economica che l’Unione stessa non sembra in grado di governare e dall’evidente strapotere degli interessi di alcuni paesi sugli altri”.
Proprio per questo ho sempre ritenuto l’architettura della moneta unica un sistema fallimentare e immorale: poiché favorisce strutturalmente lo “strapotere degli interessi di alcuni paesi sugli altri” cioè dei più forti, non dei più efficienti e dei più virtuosi. Questo era sulla carta e in teoria; questo è successo in realtà. Anche per questo molti rappresentanti delle istituzioni, andando ben oltre la decenza, hanno insistentemente affermato che dall’euro “non si può uscire, l’euro è irreversibile”: quando ormai era evidente che stare nell’euro non era e non è più conveniente (o le presunte convenienze erano magicamente sparite).
E su questo aspetto si è pure soffermato il presidente Fara: “Noi nel corso degli anni siamo stati molto critici sulla costruzione dell’Europa e sui percorsi che sono stati seguiti nel corso degli anni. L’idea che possa esserci, all’interno di una società umana, qualcosa di irreversibile ci pare abbastanza ardita. Non è stato irreversibile l’impero romano, non è stato irreversibile il comunismo, non è stata irreversibile la monarchia. La moneta è un mezzo, è uno strumento: se serve a far progredire l’Europa e a far stare bene i cittadini ha un senso, ma nel momento in cui questo senso cade si può anche rimettere in discussione l’utilizzo di una moneta”.
Ovviamente il tema dell’euro non è stato il tema principale (e non poteva esserlo) né del Rapporto Italia, né della presentazione del presidente Fara. Molti sono stati i temi affrontati, riguardanti la società italiana, letta soprattutto sotto le lenti di alcune dicotomie che ogni anno vengono proposte con temi sempre differenti. Quelle di quest’anno sono “Coraggio-Rinuncia”, “Cittadinanza-Sudditanza”, “Morale-Diritto”, “Naturale-Artificiale”, “Città-Campagna”, “Presente-Futuro”. Probabilmente alcuni di questi temi li riprenderò in prossimi articoli. Intanto vi propongo l’interessante conclusione della presentazione, poiché riguarda il tema dell’uscita dalla crisi.
“Confusamente si scontrano e si sovrappongono tre differenti visioni dell’uscita dalla crisi. La prima – forse quella minoritaria ma in auge fino a un paio di anni fa – che chiameremo ‘conservatrice-neoliberista’, ci dice che ‘va bene così’, che il mercato è e sarà la medicina giusta da assumere per svegliarci magicamente guariti… La seconda, che chiameremo ‘apocalittico-nichilista’, pretende, partendo dall’idea che niente meriti di essere conservato… che il Paese debba essere smontato e ricostruito partendo dalla democrazia orizzontale del ‘mi piace’. La terza, che definiamo ‘messianico-riformista’, è sostenuta da chi si oppone alle prime due perché diversamente ma egualmente improponibili. Di conseguenza, non si può che confidare su di un mix di rinnovamento e di conservazione. Riforme radicali congiunte alla valorizzazione delle eredità positive”.
Ecco, questo è il mix che, con un pochino di buon senso e molta pazienza, occorre costruire.
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