FINANZA E POLITICA/ Così “The Donald” farà scoppiare il debito in Italia
L’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca sarà foriera di non poche novità. E l’Italia, spiega UGO BERTONE, rischia di vivere un momento molto difficile per il debito

La sorpresa è stata grande. Non solo per i sondaggisti, che dopo la Brexit hanno incassato una nuova, clamorosa magra. Ma soprattutto per gli esperti dei mercati che affollano uffici studi e pensatoi di vario genere. Non c’è tecnico che non avesse previsto un crollo del mercato in caso di affermazione a sorpresa di Donald Trump. La frana, però, è durata lo spazio di poche ore, il tempo necessario per ascoltare le prime parole da presidente di Trump. Poi è subentrata una sorta di sollievo, quasi che i mercati, lungi dal temere la novità, altro non aspettassero per liberarsi dell’immobilismo in cui si sono dibattuti per l’intero 2016. Ma adesso?
Le incognite legate alla nuova situazione sono tante e foriere di pericoli in materia di immigrazione, di tematiche ambientali e di libertà commerciale, tanto per citare alcuni dei dossier più urgenti e complessi. E in attesa delle prime mosse della nuova amministrazione già si muovono le prime pedine del nuovo quadro, che si riflettono nei mercati finanziari, i primi a muoversi. E così, senza alcuna presunzione, proviamo ad abbozzare le prime risposte. Tanto, di peggio delle previsioni sballate di tanti guru è difficile fare.
A che si deve la risposta positiva dei mercati? 1) Molto dipende dall’esito della sfida. La soluzione peggiore agli occhi dei mercati sarebbe stata la coabitazione tra democratici alla Casa Bianca e repubblicani alla testa della Camera e del Senato. O viceversa. Un esito netto della sfida consentirà di evitare altri quattro anni di sfida infinita tra le istituzioni. O, peggio, il ricorso a procedure di impeachment. 2) Trump si è presentato nelle vesti di statista, svestendo i panni del guastatore di professione. Forse certi eccessi (a partire dal muro con il Messico, finiranno nel dimenticatoio, o quasi). 3) Gli operatori si sono finalmente dedicati alla lettura del programma economico del neo presidente, scoprendo che quella strategia largamente sbilanciata verso gli stimoli fiscali non è poi così lontana da quella svolta espansiva invocata dalle banche centrali.
Insomma, non desideravamo intensamente un po’ d’inflazione? L’avremo. Non volevamo con tutto il cuore politiche fiscali più espansive? Le avremo. Non volevamo uscire dalla morsa soffocante dei tassi negativi e ultra bassi? Ne usciremo. È questo il nuovo mantra dei mercati emerso a sorpresa dalle urne accelerando un processo che era comunque già in atto: il passaggio dal primato della politica monetaria, la tenda a ossigeno della liquidità che ha impedito il tracolo, ma che oggi presenta più inconvenienti che vantaggi, a quello della politica fiscale, che impone di nuovo la leadership dei governi rispetto alle banche centrali.
In questo quadro ci saranno molte novità. Donald Trump propone una svolta espansiva dell’economia che richiederà un grosso sforzo finanziario. Sarà garantito da un aumento dell’inflazione e del debito? Non è detto. Certo, sarà necessario aumentare i tassi per attrarre i capitali necessari per la nuova politica. Non una sola volta con il contagocce come ha fatto finora Janet Yellen che Trump vuol sostituire il più in fretta che può. I possibili sostituti alla Federal Reserve (o la stessa Yellen, se accetterà la nuova filosofia) dovranno apportare un rialzo a dicembre e quattro o cinque rialzi l’anno prossimo, poi basta. Ma accanto a questo sforzo ci sarà la massima attenzione sulla politica fiscale determinante per ridare fiato all’economia. E così caleranno le imposte sulle società, tanto per favorire il business, ma anche quelle sui privati, a vantaggio dei consumi.
A compensare le minori entrate (oltre a un possibile effetto crescita delle attività e quindi del gettito) serviranno dazi selettivi, soprattutto per colpire il dumping cinese. Inoltre, verrà sicuramente messo un dazio sulle reimportazioni dall’estero effettuate dalle società americane che delocalizzano. Ci sarà in questo una certa volontà punitiva, peraltro non molto diversa da quella che abbiamo visto in azione negli ultimi mesi nei confronti delle società americane che hanno fatto la cosiddetta inversione fiscale domiciliandosi all’estero. A favore di Trump giocherà il controllo del Congresso, che indebolirà l’azione delle lobbies.
In sostanza, si può prevedere: a) una politica espansiva che allontanerà il rischio recessione a vantaggio di Wall Street, sostenuta dai titoli delle costruzioni, delle infrastrutture per l’energia e dal pharma; b) un costo del denaro più alto, con la conseguenza di rendimenti più elevati per i T-bond; debolezza per il mercato dell’auto e quello immobiliare, condizionati dall’aumento dei costi del denaro; c) un forte aumento dell’offerta dei prodotti energetici e probabile caduta dei prezzi.
L’Europa trarrà beneficio dal dollaro forte e dalla maggiore crescita americana. La Bce, in dicembre, rinnoverà il Quantitative easing per sei o nove mesi, ma sullo sfondo si intravede la fine dei tassi negativi, primo passo dell’inversione di tendenza dei tassi che l’Italia farà bene a non trascurare. All’inizio degli anni Ottanta l’Italia affrontò l’aumento della spesa pubblica per far fronte alle conseguenze del terremoto in Irpinia, proprio mentre gli Usa davano il via al rialzo dei tassi per contrastare l’inflazione Si innescò un processo vizioso del debito pubblico, allora sotto il 100% che ha avuto effetti devastanti nel tempo.
Oggi si profila una situazione con molte analogie rispetto ad allora. Ma, purtroppo, la finanza pubblica è assai più debole. È necessario intervenire, senza farsi distrarre dai referendum o illudersi che la protezione di Mario Draghi sia destinata a durare in eterno.
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