“C’è nesso pericoloso da notare… nel 1927 il fascismo ha fatto gli stessi provvedimenti che, senza offesa, sono stati fatti l’anno scorso nei confronti delle banche popolari”: Corrado Sforza Fogliani parla con un tono pacato, ma lancia un missile contro Matteo Renzi. Gli dà – “senza offesa”, ma nemmeno troppo velatamente – del “fascista”. Ed elettrizza l’atmosfera un po’ sonnolenta del salone di Palazzo Altieri, sede dell’Associazione bancaria italiana, dove il presidente dell’Associazione tra le banche popolari italiane sta parlando di Luigi Albertini, grande direttore del Corriere della Sera, e del suo lavoro per la rivista “Credito e cooperazione”, raccontato in un libro del segretario dell’Associazione, Giuseppe De Lucia Lumeno.
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Renzismo come fascismo? Renzi fascista? “Il fascismo aveva usato un armamentario di fusioni coatte, fusioni al di sopra di determinate soglie, che è lo schema esatto del 2015”, rincara Sforza Fogliani, “perché le banche popolari sono e sono sempre state un elemento di disturbo per i regimi autoritari. Oggi poi a questa funzione politica di indipendenza che le popolari svolgono si aggiunge anche l’imperante bonapartismo economico, il fatto cioè che si voglia dipendere dalla finanza internazionale lasciando perdere o addirittura costringendo in vincoli le banche locali, che sono quelle che salvaguardano da sempre l’indipendenza e fanno crescere l’economia, oggi come anche nell’Ottocento… È un ricordo che ci deve far pensare, ma insieme ci rafferma nel nostro convincimento che le banche popolari abbiano ancora funzione crescente anche nella nostra società”.
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Viene da sturarsi le orecchie, perché se fosse un grillino a dar del fascista al premier basterebbe un’alzata di spalle, ma fa effetto sentire un’analisi così polemica sulle labbra di un banchiere austero e canuto, di 78 anni, in una sede istituzionale che, piaccia o meno, rappresenta l’establishment, com’è l’Abi (cui, non va dimenticato, l’Associazione delle banche popolari aderisce, pur nella sua autonomia).
“Le banche popolari”, ricostruisce ancora Sforza Fogliani, “hanno sempre rappresentato il liberalismo democratico, non appartenente ad alcuna consorteria, non vi appartenevano nemmeno nel periodo liberale della storia italiana, mentre anche allora quella consorteria favorì come sempre le casse di risparmio sulle popolari, essendo le prime una rappresentanza politica, le seconde appunto popolare. Questa situazione venne sottolineata in modo estremo dal fascismo. Quando, a seguito della crisi di Wall Street, si trovò a dover provvedere al salvataggio delle banche ha sempre salvato le casse lasciando le popolari al loro destino, soprattutto quelle cattoliche”.
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Pur senza raccogliere l’affronto del parallelo col Ventennio, il presidente del Consiglio approfitta della conferenza stampa di Bruxelles dell’altro giorno per tornare a battere sul suo tasto: “Abbiamo messo il sistema bancario in sicurezza, abbiamo fatto l’operazione delle banche popolari, che serve per evitare gli scandali che ci sono stati e che spero abbiano dei responsabili: mi auguro che le azioni di responsabilità si facciano e ogni riferimento a quel che è accaduto nel Nordest è puramente voluto”.
Ed ecco che all’indomani Sforza Fogliani tira fuori un comunicato stampa per replicare, rievocando anche una precedente uscita del premier: “Renzi ha detto che se la sua riforma delle Popolari si fosse fatta 25 anni fa, quello che è successo alle popolari non ci sarebbe stato. Ma a parte il fatto che la conversione obbligata in Spa ha riguardato popolari in piena efficienza (la maggior parte) e solo tre popolari in tutto che non erano a posto coi conti, e a parte anche che i conti disastrati li hanno avuti anche (e in maggior numero) Casse di risparmio già convertite in Spa (quindi, il voto capitario non c’entra), a parte tutto questo il premier non s’è accorto che la sua dichiarazione significa semplicemente dire che, prima di lui, il ministero del Tesoro (cui spetta anche di sorvegliare le banche) non c’era…”.
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Insomma, scintille. Che non vanno banalizzate come personalismi. È in atto uno scontro di visioni, che va oltre le persone. Lo Stato, per esempio, è azionista del Monte dei Paschi di Siena che con 23 miliardi di euro di sofferenze lorde, di cui dunque almeno 13 nette, rappresenta da solo il 15% circa del problema dei crediti deteriorati del Sistema Paese. Nessuna colpa dell’attuale gestione della banca, anzi, e tantomeno del governo Renzi, ma sta di fatto che il Monte non è una popolare e per decenni è stato un feudo sui generis del vecchio Pd dell'”abbiamo una banca”, quello che Renzi ha meritoriamente rottamato (“ha rottamato solo me”, si è anzi lamentato l’altro giorno D’Alema), ma che era ed è pur sempre il suo partito.
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E se alcune altre grandi banche popolari non brillano per i loro conti, notoriamente molte altre che popolari non sono, sono piene di sofferenze, come lo stesso Unicredit, che giovedì ha finalmente nominato il suo nuovo capo nella persona del francese Jean-Pierre Mustier, dopo una procedura lunga e un po’ opaca, con molti tiramolla politici tra due o tre decrepite e irrilevanti Fondazioni bancarie che non hanno più in cassa ciò che connota gli azionisti, cioè i capitali, eppure ancora contano. Le popolari no e le fondazioni sì?
Dunque questa polarizzazione indubbiamente stressata dal governo, tra le banche popolari “cattive” e le altre “buone” non sta in piedi. Ma le polemiche ancora in essere sul punto, e con toni così aspri, hanno rilievo per quello che indicano, al di là dei loro contenuti. Significano che una parte rilevante dell’establishment moderato del Paese, indubbiamente rappresentato sul territorio anche dal mondo delle banche popolari e del credito cooperativo, non si fida più del giovane leader di Rignano fiorentino. E non glielo manda a dire: glielo dice in faccia, dandogli del fascista.
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Il che capita proprio quando il governo spunta dall’Unione europea (e meno male!) 150 miliardi di margine di garanzia pubblica a vantaggio del sistema bancario italiano, che ne ha bisogno per non saltare. Un sistema in cui le banche popolari incidono sì, ma ormai per poco più di un quarto, e proporzionalmente sul totale delle sofferenze.