MANOVRA/ La mazzata alle imprese che non aiuta i più poveri

- Alfonso Ruffo

L'Italia ha evitato la procedura di infrazione, ma la manovra non incentiva la crescita e non invita gli imprenditori a darsi da fare

dimaio conte salvini 3 lapresse1280 640x300 Luigi Di Maio, Giuseppe Conte e Matteo Salvini (LaPresse)

La crescita non c’è. La crescita non si vede. La crescita è stata sacrificata alle promesse elettorali di una manovra tutta intenta a redistribuire quel poco che c’è scoraggiando gli investimenti privati e rimandando alle calende greche quelli pubblici. Una scelta miope, di corto respiro, che scarica sulle spalle del futuro molti più problemi di quanti non sia in grado di risolverne oggi.

È vero, sia pure all’ultimo momento è stata evitata la procedura d’infrazione che l’Europa stava per aprire nei nostri confronti per eccesso di debito. Ma se questo è avvenuto lo si deve al lavoro di cuci e scuci della componente più ragionevole e moderata del governo – Conte, Tria, Moavero Milanesi – sotto la regia attenta e neanche tanto nascosta del presidente della Repubblica Sergio Mattarella. E con il contestuale arretramento dei firmatari del contratto, Salvini e Di Maio, che tante preoccupazioni sta procurando al Paese che lavora e produce. Al Nord come al Sud, dove un timido inizio di ripresa stava facendo capolino – dopo le batoste ricevute con la crisi più lunga che si ricordi – grazie all’utilizzo del credito d’imposta e a un minimo di entusiasmo suscitato dai nuovi incentivi.

Invece no. Il messaggio che giunge a chi deve programmare come e dove allocare le proprie risorse ha l’effetto di una doccia gelata. Non c’è dubbio che il bisogno dei più deboli, di chi senza colpa è rimasto indietro nella corsa verso il benessere, debba essere tenuto in debito conto e soddisfatto. Ma non al prezzo di mettere fuori gioco proprio chi potrebbe e dovrebbe essere parte della soluzione.

La crescita non è un gioco di prestigio. Non si ottiene evocandola o fissandola per decreto alzando e abbassando a piacimento il numero che la rappresenta. La crescita è una cosa seria. Che si ottiene mettendo in fila una serie di elementi pratici e psicologici capaci di stimolare interpreti pronti e desiderosi di accettare la sfida dei mercati, di organizzarsi per competere, di correre rischi calcolati.

Insomma, per avere la crescita occorre creare il terreno adatto perché decidano di scendere in campo quei soggetti molto concreti e al punto giusto visionari che sono gli imprenditori. Soggetti che non si trovano belli e fatti nei supermercati, né sono sfornati un tanto al chilo dalle università, ma sono il frutto di un’evoluzione economica e culturale che fonda su leggi positive e morali.

Un Paese che ha l’ambizione di crescere non può guardare e trattare con sospetto chi quell’ambizione può soddisfare. Non può alzare barriere e disseminare il cammino di ostacoli rallentando la marcia di chi s’incarica di provvedere alla formazione del reddito nazionale. Non può agire come se volesse imbrigliare proprio quelle forze dal cui dispiegamento dipendono le sue fortune.

Certo, ci sono eccessi da contenere e storture da aggiustare. Certo, molti errori sono stati compiuti e non sempre l’arena della concorrenza ha premiato i migliori. Certo, un cambiamento era atteso e un cambiamento era necessario. Ma nella direzione opposta a quella imboccata. Il cambiamento che si aspettava doveva rendere i poveri più ricchi e non i ricchi più poveri.





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