SPILLO/ L’indice di miseria smonta i falsi miti su euro e Ue
Due giorni fa Bloomberg ha pubblicato l’indice di miseria che classifica 66 paesi del mondo, facendo emergere un aspetto interessante dell’Europa. PAOLO ANNONI

Due giorni fa Bloomberg ha pubblicato l’indice di miseria che classifica 66 Paesi “sommando” il tasso di inflazione e l’indice di disoccupazione. In questa singolare classifica si è confermato saldamente al primo posto il Venezuela seguito dal Sud Africa e dall’Argentina. Tra i primi dieci, in compagnia di Paesi come Ucraina o Turchia e Brasile, un tempo economie in via di sviluppo, fanno il capolino la Grecia al quinto posto sotto l’Egitto e a pari merito con la Turchia che “guadagna” una posizione, e la Spagna, confermata all’ottavo posto appena sotto l’Ucraina. È davvero singolare trovare due Paesi “del primo mondo” e dell’Europa ai primi posti di una classifica di Paesi che siamo abituati ad associare a povertà e miseria.
Sicuramente si rimane perplessi di fronte a una pubblicazione, che con i suoi limiti, cozza con l’immagine di un Paese il cui debito “non è più un problema”, la Grecia, e uno che “è in ripresa”, la Spagna. In realtà l’indice di Bloomberg fotografa una situazione difficile con la Grecia al 21% di disoccupazione e la Spagna al 17%. La disoccupazione giovanile che in Grecia negli ultimi mesi è risalita dipinge una situazione ancora più drammatica con la Grecia al 41% e la Spagna al 37%. Chi non è europeo e legge questi dati non può non farsi alcune domande: cosa sta succedendo in Europa? Perché parte dell’Europa sta diventando un’economia in via di sviluppo? Questo andamento è destinato a continuare o si invertirà? La realtà è molto diversa dall’immagine consolidata di un continente ricco e florido; oppure la realtà è più complessa dell’immagine semplificata che passa sulla maggioranza di giornali e tv.
Allo stesso modo è consolidata la convinzione che fuori dall’euro e dall’Europa sarebbe comunque peggio: inflazione, debito, svalutazione renderebbero l’economia molto peggiore di quella attuale. Si dovrebbe però cominciare a prendere in considerazione l’ipotesi, se il trend non si inverte, che l’economia da Paese del terzo mondo si raggiunge comunque, all’interno dell’euro, anche se più lentamente. A questo punto, sempre per onestà intellettuale, bisognerebbe chiedersi perché nell’euro, toccato il fondo, ci dovrebbero essere più possibilità di risalita che fuori. Qualsiasi cosa si pensi dell’euro e dell’Europa non si può non fare i conti con “gli indici Bloomberg” e i loro parenti stretti secondo cui la periferia europea si sta impoverendo a un tale livello da avere punti di contatto che le economie in via di sviluppo; con la differenza che spesso queste economie “salgono” mentre la periferia europea scende.
Rimane sospesa questa domanda: le tensioni e le conflittualità, “i populismi”, all’interno dei singoli Paesi europei e tra Paesi europei che relazione hanno con l’attuale struttura economico-politica europea? Se l’euro e l’Unione europea sono un bene perché la realtà sbaglia? L’assunto secondo cui l’euro e l’Unione europea agiscono in senso centripeto e diminuiscono le conflittualità fino a che punto può essere difeso? Infine l’Europa coincide con l’euro e l’Unione europea? Si può essere amici senza l’euro? Sono domande con cui l’indice di Bloomberg ci obbliga a fare i conti; soprattutto perché, esclusi i paradisi fiscali, in fondo all’indice, dove si sta meglio, ci sono Danimarca e Norvegia, due paesi europei senza l’euro. Con una sola aggiunta: un’inversione a questo punto deve arrivare in fretta, prima che le differenze diventino così grandi da provocare conseguenze politico-economiche traumatiche.
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