SPY FINANZA/ 4 marzo, da Italia e Germania pronti degli scossoni per l’Europa
Mentre l’Italia sarà al voto, in Germania si terrà il referendum Spd per decidere se dar vita al governo di coalizione. Due eventi cruciali per il futuro europeo. MAURO BOTTARELLI

Siamo dentro un enorme Truman Show. O Matrix, scegliete pure voi ciò che vi aggrada maggiormente. Comunque sia, non c’è da stare tranquilli. Per tre ragioni, almeno a mio modo di vedere. La prima e la seconda sono strettamente connesse, più che altro perché hanno a che fare con l’ambito che maggiormente preme per indirizzare in un certo modo il voto politico del 4 marzo prossimo. Per ora, soltanto attraverso auspici amichevoli ed endorsement apparentemente senza malizia, ma, vista la messe di idiozie che comincia a riempire i giornali rispetto alle presunte ingerenze russe sull’appuntamento elettorale (La Stampa del neocon de noantri Maurizio Molinari, uno che trasforma Giuliano Ferrara nel miglior amico di Putin, ha addirittura mandato un inviato a New York per indagare su cinque profili Twitter che sembravano Napalm51 di Maurizio Crozza e nemmeno si è vergognata di pubblicare i resoconti della sua patetica caccia all’influencer del Cremlino con – udite udite – meno di 500 follower), temo che l’allarme lanciato ieri dai servizi per un’offensiva a ridosso delle urne sia un annuncio, più che un allarme.
Primo, il ministro delle Finanze spagnolo, Luis de Guindos è il nuovo vice-governatore della Bce, lo ha deciso l’Eurogruppo lunedì. Direte voi, non bisognava attendere marzo e la decisione di Parlamento Europeo e Bce stessa? Bottarelli non ci aveva detto che il parere dei ministri non era vincolante? Infatti, il problema è che – tu guarda le stranezze – arrivato a un passo dalla meta, l’altro competitor – il capo della Banca centrale irlandese, Philip Lane – si è ritirato dalla corsa. Di fatto, trattandosi di una competizione a due, la scelta è definitiva. L’uomo che nel 2012 riuscì a strappare 41 miliardi comunitari per il disfunzionale sistema bancario del suo Paese, pressoché alle soglie dell’insolvenza, sarà il numero due dell’istituzione più potente d’Europa, dopo sei anni uno spagnolo torna nel board e dal 1 giugno entrerà di diritto nell’ufficio che conta, quello finora occupato dal portoghese Vitor Constancio.
Con un rappresentante del Club Med come vice, porte spalancate per un falco del Nord al posto di Mario Draghi il prossimo anno? Non è così automatico, ancorché pressoché certo. Lo so, sembra un discorso astruso ma seguitemi. La questione non è infatti di impostazione, visto che il nuovo governatore sarà certamente un rigorista, ma capire se la Germania vorrà giocare la carta Jens Weidmann oppure no: ovvero, se intenderà gestire in prima persona il processo di disfacimento a due velocità dell’eurozona o se preferirà agire per procura. E la questione appare seria per il semplice fatto che, al netto del mandato formalmente temporale, alla guida della Germania l’anno prossimo non ci sarà più Angela Merkel, questo appare chiaro. Che la Grosse Koalition nasca oppure no, poco cambia: la Cancelliera non ha più la forza politica di gestire quella che appare una vera e propria rivoluzione, esterna e interna.
Ed ecco il secondo punto. Come temevo – e uso questo verbo perché sapete che non credo per nulla alle coincidenze – lo scrutinio finale del voto tra i 464mila delegati della Spd, chiamati a dare il via libera vincolante alla nuova coalizione di governo con la Cdu, si terrà proprio il 4 marzo, giorno del voto in Italia: di fatto, l’appuntamento politico europeo dell’anno, fin da ora. Se infatti tutto il resto è passato in cavalleria, crisi catalana e Brexit in testa (tu guarda un po’, se ricordate le ho definite fin da subito delle cortine fumogene di disinformazione di massa), quel giorno è destinato a caricarsi sulle spalle un peso specifico devastante per la tenuta e gli assetti futuri dell’Ue: pensate che Romano Prodi abbi dato vita all’endorsement pubblico di Paolo Gentiloni solo per fare un dispetto a Matteo Renzi? Il Professore, quando parla, non lo fa mai a caso. E, spesso e volentieri, lo fa con la voce di Bruxelles, ancorché senza mandato formale.
E in quale clima si andrà a quel voto interno fra i socialdemocratici? A livello politico, l’Spd ha ottenuto il massimo se parliamo di dicasteri di peso, ma ci sono due variabili che pesano. Primo, l’addio di Martin Schulz, sia al ruolo di futuro ministro degli Esteri (quasi avesse messo le mani avanti rispetto alla grande delusione, sapendo cioè che l’assise interna boccerà la Grosse Koalition sotto spinta dell’ala giovanile, sempre più estrema e sempre più influente) che di segretario e, secondo, il sondaggio shock di lunedì, dal quale abbiamo scoperto che per uno 0,5% Alternative fur Deutschland ora è secondo partito del Paese, a spese proprio dell’Spd in caduta sempre più libera. Detto fatto, l’ala contraria all’accordo di governo ha immediatamente attribuito il risultato proprio alla politica troppo moderata e filo-governativa finora tenuta da Schulz, invocando lo strappo come unica possibilità per tornare a contare e non lasciare campo libero agli estremisti di destra, soprattutto nella sempre più delusa ed economicamente fragile ex-Ddr, patria di Angela Merkel e di molti sogni infranti post-generazionali.
Cosa accadrebbe se, mentre l’Italia si sta recando ancora ai seggi, magari sotto la spada di Damocle di prime rilevazioni che vedano l’astensionismo in crescita, dalla Germania arrivasse la notizia del “nein” dell’assise socialdemocratica al nuovo patto di governo, di fatto spalancando le porte al traumatico addio di Angela Merkel e al ritorno alle urne nel Paese che aveva nella stabilità politica il suo tratto distintivo? Come reagirebbe l’alleato parigino a quella notizia, di fatto ritrovandosi da solo alla guida della nuova Europa, quella – per capirci – che alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco, proprio su pressione francese, ha cominciato ad aprire a una messa in discussione dell’accordo sul nucleare con l’Iran, ovviamente su spinta statunitense?
Sarà, ma qualcosa sembra volerci dire che, in un modo o nell’altro, Paolo Gentiloni resterà a Palazzo Chigi: vuoi le strane inchieste di altrettanto variopinti siti Internet che sparano di colpo scoop alla Washington Post, vuoi per altre rivelazioni a orologeria sempre figlie del giornalismo fuori linea, in questo caso de Le Iene, ma la puzza di mosse tutt’altro che spontanee e casuali nel timing si sente lontano un miglio. Il tutto, condito dalla pagliacciata a reti unificate sul risorgente pericolo fascista. Ragionateci un attimo con calma e poi fate due conti, visto che formalmente è anche il vostro di voto che il 4 marzo rischia di non servire a nulla, stante decisioni già prese da altri e altrove.
La terza e ultima ragione, invece, sta in questi grafici: il primo ci mostra la messe di copertura di short su Treasuries Usa occorsa subito dopo il tracollo di Wall Street e l’allarme per l’aumento proprio del rendimento della carta statunitense a 10 anni, innescato – come vulgata ufficiale vuole – dai rischi inflazionistici al rialzo. Parliamo di due settimane fa e non due anni, eppure quel terrore generalizzato che portò a uno degli short-squeeze più grandi di sempre, quasi il record assoluto per volume, è già passato. E non solo negli investitori, soprattutto nel soggetto che per primo dovrebbe temere mercati agitati e l’approssimarsi formale di quota 3% del rendimento: il Tesoro Usa. Sapete, infatti, quanto debito pubblico a 3 e 6 mesi, 4 settimane e due anni ha emesso ieri? Ce lo dice il secondo grafico, un controvalore di 179 miliardi! E sapete quanta carta emetterà in totale solo questa settimana, oltretutto con un giorno di contrattazioni in meno, visto che lunedì era il President Day? Qualcosa come 258 miliardi di dollari, un quarto di triliardo in quattro giorni!
Il tutto, mentre formalmente il mercato dovrebbe essere agitato proprio sul fronte obbligazionario sovrano Usa, ovvero avere gli occhi fissi e spiritati sullo yield del decennale a stelle e strisce, nel timore che quota 2,91% passi il Rubicone del 3% e squassi di nuovo tutto. Ma ci sono o ci fanno? Quale premio dovrà pagare, infatti, il Tesoro Usa per far digerire al mercato questa extra-porzione di debito in un solo pasto? Perché se sarà alto, allora avremo subito la riprova relativa al pericolo di rottura della quota psicologica del 3% e Wall Street sarà il canarino nella miniere delle sesquipedali balle che finora ci hanno raccontato per nascondere le vere cause dei tremori (debito e leverage), mentre se resterà in linea con le precedenti aste, sarà l’intera narrativa dell’allarme rosso a cascare come un castello di sabbia e allora sì che qualcuno potrebbe essere tentato dal blitz. L’ennesimo, in questo mondo di bugie ormai istituzionalizzate.
Goldman Sachs, in effetti, si attende che il decennale tocchi il 3,25% entro fine anno, il tutto proprio a causa del diluvio di nuove emissioni necessarie per finanziare il budget da ospedale psichiatrico annunciato da Donald Trump: «La continua crescita del debito pubblico fa aumentare le domande relative alla sua eventuale sostenibilità, se lasciate senza una risposta». Ce la daranno le aste folli di questi giorni, la risposta necessaria? Anche in questo caso, esattamente come per lo strano addio alla candidatura di Philip Lane e i sommovimenti in casa Spd nel giorno del voto italiano, che strano timing per emettere debito come se non ci fosse un domani.
Ve l’ho detto, è Truman Show. O Matrix. Scegliete voi. Comunque sia, c’è un copione già scritto.
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