Certe notizie sono un po’ come gli amori cantati da Antonello Venditti, fanno dei giri immensi e poi ritornano. La crisi valutaria – e, di conseguenza, debitoria estera – dei mercati emergenti rientra a pieno in questa categoria: per due giorni la Turchia è stata l’ombelico del mondo, poi sparita. Nel frattempo la lira turca si è rivalutata in maniera strutturale sul dollaro? Le riserve di valuta estera rimpinguate in maniera adeguata? La Banca centrale ha finalmente rotto gli indugi e alzato i tassi di interesse? No. Semplicemente, ci troviamo di fronte a crisi cicliche e, come tali, vivono di stop-and-go figli della natura stessa del problema: l’indebitamento in dollari, il quale certamente non è problema che si risolva nell’arco di una settimana. Lo stesso vale per l’Argentina, il cui stato di salute è certificato da questi due grafici: non solo il peso continua il suo tracollo rispetto al dollaro, spedendo le riserve di Buenos Aires ai livelli pre-intervento del Fmi (50 miliardi di dollari, un record assoluto), ma quel tonfo è stato sostanziato da una vera e propria bank-run dei correntisti, i quali negli ultimi due giorni di agosto hanno ritirato qualcosa come 490 milioni di dollari, spedendo la valuta nazionale nell’abisso di 41,6 sul biglietto verde.
Ma per capire come la rotta sia davvero grave e generalizzata per i mercati emergenti, nonostante l’assenza di titoli roboanti sui giornali, ecco questi altri due grafici, i quali ci mostrano plasticamente la dura realtà: le aziende dei Paesi emergenti hanno infatti emesso bond per un controvalore di 28 miliardi di dollari sui mercati esteri questa estate, quasi interamente in valuta statunitense, un calo del 60% su base annua, mentre i loro governi sono riusciti a piazzare debito per 21,1 miliardi, in flessione del 40%. In parole povere, nemmeno troppo lentamente si sta concretizzando in maniera generalizzata il timore più grande in situazioni simili: l’esclusione dal finanziamento sui mercati di capitali. O, quantomeno, il suo ridimensionamento a causa del premio di rischio sempre più alto che viene richiesto.
Insomma, prepariamoci a un ritorno in stile Venditti del problema: e non ci vorrà molto, vista anche la continua tensione che sta montando sui mercati riguardo alla disputa commerciale in atto, formalmente, fra Usa e Cina. Perché vi dico questo? Perché per quanto le situazioni turca e argentina non siano minimamente paragonabili a quella debitoria italiana, chi lo fa è in malafede, occorre prendere atto di una realtà altrettanto incontrovertibile: il “governo del cambiamento” ha sbattuto i tacchi, chiesto scusa e detto signorsì all’Europa, alla faccia dei soloni che preconizzavano ribaltamenti epocali dell’Unione europea come un calzino, grazie alla presenza strategica nel Governo del ministro Savona. Del quale, grazie al cielo, si sono perse le tracce. Perché una cosa sono le supercazzole da accademici che giocano a fare gli iconoclasti per posa intellettuale e un’altra la realtà. E quando cominci a vedere che alle minacce devi fare seguire i fatti, ma che, contestualmente, questi presentano dai conti da pagare, allora anche i Robespierre e i Che Guevara da discount di questo esecutivo mettono per bene la coda fra le gambe e accettano che la manovra operi in un regime di deficit al massimo dell’1,6%, altro che “sforare” o “sfiorare”, quasi i conti del Paese – quindi di tutti noi – siano pinzellacchere degne di calambour semantici di dubbio gusto.
Ma si sa, la memoria degli italiani è corta. E non serve riprendere in mano gli Scritti corsari di Pier Paolo Pasolini per prenderne atto: hanno mandato al governo questa accozzaglia di disperati e sabotatori per conto terzi perché volevano il reddito di cittadinanza, la flat tax e l’addio alla Fornero. Non avranno nulla. Il primo, stante l’abbassamento delle disponibilità finanziarie in sede di Def, già è stato rivisto a possibile contributo mensile da 300 euro, ovvero dieci euro al giorno. Insomma, Di Maio vi paga il pranzo. Meglio che niente, per carità, ma è un po’ come essere certi di uscire a cena con Cindy Crawford e ritrovarsi a tavola con Gegia. Sono entrambe donne, cambia qualche particolare. La flat tax, poi, è addirittura un caso di studio, poiché prima ancora di partire è già divisa su almeno tre scaglioni: insomma, un nuovo concetto – un po’ dadaista – di tassazione piatta. Ma si sa, Matteo Salvini è così, un vulcano di iniziative. La Legge Fornero? E chi ne sente più parlare? Ogni tanto qualcuno salta fuori da un sottosegretariato e cita la mitologica “quota 100” così come si chiede “come stai?” quando si incontra un amico, tanto per circostanza. Nei fatti, zero. Come d’altronde la battaglia di retroguardia contro Tito Boeri, durata giusto il tempo della nuova emergenza funzionale a una bella distrazione di massa.
Ci avete fatto caso? Domenica la notizia del giorno, fresca fresca dal meeting Ambrosetti di Cernobbio, era di fatto l’annacquamento mortale proprio dei provvedimenti bandiera di questo governo compiuto dal ministro Tria, appena tornato dall’Ecofin e la loro diluizione sull’arco temporale dei cinque anni di legislatura. Di fatto, tutto in cavalleria. E cosa si è inventato il ministro Di Maio, tanto per sviare? La polemica sulle chiusure domenicali dei centri commerciali. Ed è stato bravissimo, perché per almeno un giorno la strategia ha funzionato. Peccato che poi abbia naturalmente preso il sopravvento la cialtronaggine ideologica di questo governo e, nell’arco di un pomeriggio, si è passato dai centri chiusi per legge, alla turnazione, al 25% dei punti vendita aperti fino all’esenzione totale dalla chiusura per le città turistiche (in Italia, praticamente tutte) messa sul tavolo dalla Lega, già scottata della lettera degli imprenditori veneti contro il “Decreto dignità” e quindi poco avvezza a provvedimenti para-sovietici e da Stato etico che ti chiude i negozi per salvaguardare i buoni rapporti in famiglia.
Anche perché, signori, la puzza di interesse privato in atto pubblico un pochino circola attorno a questa nuova rivoluzione epocale, la versione grillina del “ce lo chiede l’Europa”, visto che quando fa comodo a loro si può scomodare il fatto che all’estero ci sia maggiore regolamentazione. Casualmente, infatti, proprio l’M5S non solo è l’emanazione pubblica e istituzionale di una ditta privata che si occupa di Internet e Rete, ma sta anche facendo una corte politica spietata all’ex numero due di Amazon, Diego Piacentini, a capo del team per la Trasformazione Digitale voluto dal governo Renzi e ora in scadenza di mandato (l’avesse fatto Berlusconi con Fininvest, apriti cielo, tutti in piazza). È questo il cambiamento, forse? O la pagliacciata della Diciotti, plastico esempio di come il famoso passare dalle parole ai fatti del ministro Salvini sia solamente bieca propaganda, rilanciata attraverso il megafono del suo dream team da social network? O la famosa “cabina di regia” sulla Libia a guida italiana, talmente solida da aver visto, non più tardi di lunedì, un bel cambio di rotta di 180 gradi, visto che il ministro Moavero si è recato a Misurata per parlare con il generale Haftar?
E il nostro debito post-Qe, chi lo compra poi? Trump? I cinesi? I russi tramite garanzia statale? Anche lì, annunci roboanti e poi il silenzio. Parole, solo parole che fanno giri immensi. Ma che poi, state tranquilli, ritorneranno. Perché quel poter evitare aggravi di figuracce riguardo a chi sarà così pietoso da comprare i nostri Btp dopo che Mario Draghi avrà spento la pressa (e domani nella conferenza stampa dopo il board Bce capiremo qualcosa di più, dopo la sua rumorosa assenza al simposio della Fed di Jackson Hole a fine agosto) è stato dovuto soltanto a una cosa: aver detto signorsì ai patti stretti in precedenza e da altri con l’Europa, ovvero dichiarare pubblicamente che non si sforeranno i parametri.
Altro che alzare la voce e battere i pugni sul tavolo. Et voilà, spread rientrato, titoli dei giornali che passano dalla prima alla pagina dell’economia, telegiornali che non si occupano più di differenziale sul Bund e si può pensare ad altro, si può inventare qualche altra bufala da vendere a chi ancora crede alle promesse di questo Governo. E sono tanti, tanti davvero. A quanto pare, l’odio e lo schifo per chi ha governato prima sono ancora forti e necessitano ulteriore tempo per essere digeriti e smaltiti. Ci vuole qualche altra retromarcia, qualche altra figuraccia alla Toninelli, qualche altra promessa rinviata, in attesa di finire del tutto nel dimenticatoio. E, tra poco, salvo disastri libici o colpi di teatro di Erdogan (tutt’altro che escludibili a priori, anzi) finirà anche l’emergenza perenne degli sbarchi, la retorica dei porti chiusi, della pacchia finita, della ruspa e del “prima gli italiani”. E allora, toccherà pensare alle cose serie. Oppure, saltellare da un dibattito all’altro su temi di fondamentale importanza come le chiusure domenicali dei centri commerciali (in ossequio, immagino, al governo che vuole il bene dell’economia e spinge per maggiore occupazione) per evitare il redde rationem. Un po’ come la lira turca. O il peso argentino. I quali possono rimbalzare un po’ sul dollaro, godere di un po’ di tregua, sparire dai giornali per qualche giorno, ma non smettere di essere un problema: perché se non risolvi la criticità del debito estero sottostante e insostenibile, la tua ontologica croce farà dei giri immensi ma poi tornerà a casa. Sempre. E l’unico ad averlo capito, con spietati lucidità e calcolo, pare Matteo Renzi.