Quando in questo Paese, stampa e politica impareranno a leggere i giornali anglosassoni, sarà sempre tardi. L’edizione di venerdì scorso del Financial Times, in tal senso, è un vero e proprio caso di scuola. Tutti, con accenti ovviamente diversi in base alle collocazioni o alle simpatie politiche, hanno ripreso con enfasi l’articolo del solito Tony Barber, il fustigatore degli italici vizi per il quotidiano della City, dal titolo molto evocativo, L’abbaiare dei populisti italiani potrebbe essere peggiore del loro morso. Insomma, non ingigantiamo troppo la minaccia del governo Lega-M5S, quasi un contraltare all’idiota uscita di Pierre Moscovici rispetto ai “piccoli Mussolini”. Un articolo totalmente inutile, reso “autorevole” solo dalla testata che lo ospita, notoriamente un megafono di stereotipi quando si occupa del nostro Paese a livello politico. Ma tant’è, se il Financial Times scrivesse che bere cicuta aiuta la digestione, quantomeno si interpellerebbero degli specialisti per cercare un barlume di verità in quel non-sense.
Decisamente più interessante era l’editoriale ospitato nella pagina precedente a quella dell’album di banalità di Tony Barber, intitolato La sparizione della cooperazione renderà peggiore la prossima crisi finanziaria. In sé, un’altra collezione di ovvietà e idiozie. Basti pensare che la premessa è quella in base alla quale oggi la capitalizzazione delle principali banche è molto migliore e più in grado di reggere shock sistemici di quanto non fosse prima della crisi Lehman, ma tutto il resto del pezzo è dedicato a una sfilza di criticità che rendono la situazione attuale ben peggiore – indebitamente totale a livello globale in testa -, tra le quali spiccava – udite udite – il fatto che le banche non prestano più soldi a imprese e famiglie così facilmente (quindi sono sane, ma derogano al loro compito statutario, magari per concentrarsi su trading e acquisti mirati di titoli di Stato), quindi il rischio risiede in soggetti operanti nel cosiddetto sistema bancario ombra e nel loro ruolo sussidiario di fornitori di liquidità all’economia reale. Insomma, come autosmentirsi e contraddirsi del tutto in dieci righe. Ma, come vi dicevo, i giornali anglosassoni non vanno letti, bensì interpretati.
Al Financial Times, soprattutto a livello di commenti, non interessa spiegare come stanno le cose, ma stabilire la narrativa che diverrà mainstream. Un po’ come fa l’Economist, altra testata che potrebbe negare l’esistenza dello zucchero nel gelato e troverebbe schiere di giornalisti e osservatori pronti a giurare che, in effetti, a un attento assaggio questi è amaro. Amarissimo. Come la realtà, ahimè. E quella che il quotidiano della City ha voluto spacciare al mondo, garantendole oltretutto la forma nobile dell’editoriale, è che la prossima crisi sarà potenzialmente peggiore di quella del 2008 a causa delle politiche dei sovranisti, oggi al potere in sempre più Paesi. E, soprattutto, nel Paese cardine in materia finanziaria, gli Usa di Donald Trump.
E qui, attenzione perché l’allegoria della “rana bollita” di Noam Chomsky cade a fagiolo: se si alza il fuoco a poco a poco, la rana bollirà quasi senza accorgersene. Ma se si parte con un fiammata che rende subito l’acqua bollente, la rana salterà fuori non appena immersa. Bene, lo stesso accade con l’opinione pubblica, a cui occorre somministrare dosi minime quotidiane di bugie ben confezionate (quantomeno all’inizio), in modo che a poco a poco le accetti e le metabolizzi come verità. Le fake news nascono così, mica dal nulla. Ha funzionato, recentemente, con la Siria, con il Russiagate, con l’emergenza fascista in Italia, talmente reale che CasaPound il 4 marzo ha preso una percentuale da prefisso telefonico, più che da Marcia su Roma. Ma non importa che sia vero o meno, conta che lo si creda vero. E siccome i prodromi della nuova crisi globale sono alle porte, occorre portarsi avanti con il lavoro: la colpa è di Donald Trump e dei sovranisti, i quali mettendo in discussione le istituzioni sovranazionali non consentono il lavoro di riforma e cooperazione, ad esempio in ambito bancario, necessario per scongiurare una nuova Lehman. O peggio.
Sono balle, ovviamente, perché per quanto la mia contrarietà a quello che possiamo chiamare sovranismo globale, ivi compreso il Governo attualmente in carica nel nostro Paese, sia pressoché totale, addossargli colpe che sono tutte ascrivibili a governi precedenti e, soprattutto, alle Banche centrali, è malafede. Pura e semplice. C’è una parte di verità, però, nell’editoriale del Financial Times. Ed è ciò che vi ripeto dal 10 novembre del 2016: Donald Trump è stato messo alla Casa Bianca dalle stesse élites che lui dice di voler combattere, perché serve il suo ruolo da capro espiatorio.
Primo, per purgare il mal di stomaco da partiti tradizionali della gente, la stessa portata all’esasperazione da proprio crisi economica globale ed emergenza migranti e che ora vede le proprie istanze rappresentate finalmente da chi è al potere: quando questo fallirà, per incapacità e per il combinato da nuova crisi in arrivo, sarà come avere trovato il vaccino contro il populismo, perché la gente li abbandonerà delusa e tornerà per decenni fra le rassicuranti braccia dei partiti mainstream, i quali oltretutto avranno ritrovato anche una parziale verginità attraverso il purgatorio di un paio d’anni di comoda e propagandistica opposizione al “nuovo fascismo”. Secondo, non solo recitare il ruolo del capro espiatorio della nuova crisi, la quale sarà peggiore del 2008 a causa dei cattivoni al governo, come ci dice il Financial Times, ma addirittura esserne il detonatore con le proprie politiche folli di indebitamento in un contesto di bolla ormai allo stremo e pronta a scoppiare per un niente. Era chiaro fin da principio, ora è cristallino. Non a caso, Donald Trump ha scelto il timing perfetto per scatenare la più assurda e controproducente delle guerre, quella commerciale contro la Cina, la quale finora sta portando in dote positiva agli Usa solo l’instabilità politica ed economica indotta in seno al competitor europeo. Pechino, forte dell’impulso creditizio che può garantire al mondo e delle sue detenzioni di debito Usa, sta patendo sì e no il solletico dalla situazione.
La cosa grave non è tanto che l’opinione pubblica non capisca, visto lo schieramento mediatico messo a difesa di questo segreto di Pulcinella, bensì il grado di ignoranza o collaborazionismo degli stessi media. I quali, ovviamente, per dovere di cronaca devono dare conto del dato record del Pil statunitense del secondo trimestre o dei continui massimi frantumati da Wall Street o dal tasso di disoccupazione al minimo storico, ma dovrebbero anche raccontare cosa c’è alla radice di quella ricetta: la strada per il disastro. Guardate questi grafici, parlerebbero da soli, ma perderò qualche ultima riga per darvi delle cifre.
Non solo il deficit di budget Usa per i primi 11 mesi dell’anno fiscale in corso ha toccato quota 895 miliardi, più 222 miliardi (+39%) su base annua, ma questo risultato significa che la quota psicologica del triliardo di dollari verrà toccata e sfondata già nel 2019, un anno in anticipo rispetto alle previsioni: perché di questi record infranti non si parla? Ma attenzione, perché il mese di agosto è stato davvero esplicativo della politica da pazzo totale o sabotatore professionista di conti pubblici posta in essere da Donald Trump. La spesa totale per quel mese, infatti, è salita a 433,3 miliardi di dollari, non solo il 30% in più su base annua, ma anche il livello di outlay mensile più alto mai toccato nel già storicamente dispendioso e indebitante mese di agosto. Il tutto, grazie alla riforma fiscale di Trump che piace tanto ai sovranisti, con un crollo delle entrate, solo 219 miliardi, di cui quelle corporate in negativo per 3 miliardi.
Morale finale della favola? Il deficit di budget cumulativo di agosto ha portato quello generale per il 2018 a quota 898 miliardi di dollari, il 40% in più rispetto ai primi 11 mesi dell’anno fiscale 2017! Roba da Prima Repubblica, altro che rivoluzione sovranista! È tutto deficit, tutta spesa pubblica in un Paese già indebitato fino al collo e che riesce a mantenersi fuori dai marosi del finanziamento sovrano solo grazie allo status di valuta benchmark globale del dollaro. Volete un altro esempio? Donald Trump appare sempre più disperato nel suo bluff dal sapore elettoralistico in vista del voto di mid-term atteso per inizio novembre, come ci dimostrano i dati, i quali sbugiardano e ridimensionano in maniera clamorosa l’ultima minaccia della Casa Bianca, ovvero ulteriori dazi su merci importate dalla Cina per un controvalore addirittura di 200 miliardi di dollari, ancorché con un aggravio solo del 10% e non del 20 o 25% precedenti, da annunciare fra oggi e domani.
Come mostra il grafico, infatti, la stragrande maggioranza dei prodotti che Trump vorrebbe tassare in maniera punitiva sono di largo consumo negli Usa, percentualmente parlando rispetto ai 50 miliardi di beni già soggetti a tariffe. Ma per quegli stessi beni – dai condizionatori d’aria alle borse da viaggio, dagli aspirapolvere ai mobili – sarà ben difficile per gli importatori statunitensi trovare un sostituto del mercato cinese a parità di condizioni attuali. Quindi, il rischio è quello di una scarsezza di beni di largo consumo o il loro netto aumento di prezzo, un qualcosa che andrà a colpire i cittadini e il loro potere d’acquisto, oltre che le vendite al dettaglio. Il tutto, in un Paese che vede il 70% del Pil costituito dai consumi.
Strano concetto di great again economico. Ma, soprattutto: quegli eventuali aumenti di prezzi, a vostro avviso, eroderanno il potere d’acquisto di alti dirigenti di Wall Street e industriali o di impiegati e operai? Signori, Trump sta sabotando l’economia americana in maniera scientifica e i giornali di mezzo mondo lo glorificano, mentre gli altri lo massacrano su idiozie social, ma devono ammettere che l’America del lavoro e della Borsa con lui vola. Volerebbe con chiunque, stante i livelli di deficit che si stanno armeggiando Oltreoceano.
Ora, delle due, l’una: o Trump era così pesantemente sotto ricatto da dover accettare il ruolo di capro espiatorio/sabotatore (della serie, tu e le tue aziende vivrete felici e senza guai con la giustizia per il resto della vita, altrimenti preparati a un soggiorno con la tutina arancione) oppure hanno messo un pazzo totale alla Casa Bianca. Ma, come vi ho detto l’altro giorno, il redde rationem è ormai alle porte: il 6 novembre l’America va al voto per le elezioni di mid-term, forse le più importanti di sempre. Il 7 novembre sapremo tutto di come evolverà la crisi in gestazione: come, quando, perché. E soprattutto, dove. Quale sarà l’epicentro? Io, purtroppo, ho una mia certezza preventiva. Nel frattempo, un consiglio: non lasciate che vi facciano fare la fine della rana bollita di Chomsky. Perché l’editoriale di venerdì del Financial Times dice una cosa molto chiara: la pentola è già sul fuoco.