SPY FINANZA/ L’attesa dei mercati per le mosse di Italia e Usa

- Mauro Bottarelli

Due cose guardano i mercati: le elezioni di mid-term del 6 novembre negli Usa e se la Bce lascerà nei guai paesi indebitati come l’Italia, spiega MAURO BOTTARELLI

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In generale, lo ammetto, non mi fido della gente. Un po’ per indole, un po’ per dna montanaro, un po’ per esperienza. Più che mai non mi fido degli umili e degli ingenui, i peggiori impostori che esistano. Soprattutto raggiunti una certa età e certe posizioni. Figurarsi, quindi, come posso valutare il teatrino politico in atto in questo Paese – da qualsiasi angolazione politica lo si voglia guardare, nessuno escluso – dal 5 marzo scorso. Fateci caso, ormai non passa giorno che i ministri Toninelli e Di Maio non finiscano nel mirino per qualche figuraccia sesquipedale, roba che ti viene da chiedere se facciano apposta. Ma ci si scorda sempre che il ministro del Lavoro e vice-premier, a conti fatti, rappresenta soltanto se stesso e poco più: in casa 5 Stelle, le decisioni che contano le prendono Grillo e Casaleggio. Manu militari e senza possibilità di dibattito o contradditorio. Nemmeno con il tanto declamato voto on-line, archetipo della democrazia che verrà, del Sol dell’Avvenire a portata di like o di click.

A mio avviso, fanno bene: in questo sono leninista rigido, centralismo democratico e la base si adegui. Altrimenti si incappa in quell’equivoco chiamato anarchia che qualcuno, per proprio comodo e posa intellettualoide, spaccia per democrazia diretta o altre idiozie universalistiche simili. E Grillo e Casaleggio, stante anche il loro ruolo defilato e il loro silenzio senza più prolungato, probabilmente, hanno un’agenda parallela e con interessi ben differenti dal cosiddetto bene comune. O, addirittura, dal governo stesso del Paese. Che è un mezzo, non il fine. D’altronde, come spiegare altrimenti l’enorme pazienza che i mercati stanno mostrando verso questo esecutivo di dilettanti allo sbaraglio e lottizzatori d’antan, vedi il caso Rai, con lo scambio fra il via libera di Forza Italia alla candidatura di Marcello Foa e la garanzia leghista a Berlusconi che nessuno toccherà il monopolio pubblicitario di Mediaset? O volete credere alla balla che non vi sia stato nessun do ut des alla famosa cena di Arcore e che si siano limitati a mangiare e guardare Cagliari-Milan?

Eppure, a parte un paio di fiammate, quasi degli avvertimenti molto chiassosi ma blandi e poco più come certi benevoli rimbrotti di nostra madre, nessuno fra chi investe pare opporsi davvero con i metodi che il mercato gli metterebbe a disposizione a un Governo che rivendica la spesa in deficit come un mantra, oltretutto per finanziare idiozie a rischio di incostituzionalità come flat tax (a più scaglioni, un vero unicum mondiale) e reddito di cittadinanza, appunto. Eppure, tutto placido. Merito del buonsenso del ministro Tria e della sua mediazione, in asse con il Quirinale, per non superare la quota dell’1,6%? Con tutta la stima e il rispetto per il professor Tria, quando al mercato non andava bene qualcosa o, meglio, quando voleva imporre la sua linea, lo ha fatto capire molto chiaramente a ministri delle Finanze con un profilo più alto o almeno roboante del suo, quantomeno a livello mediatico. Quindi, o Tria ha una sorta di doppia vita, austero ragioniere in pubblico e grande tessitore ad alto livello della comunità finanziaria nel privato oppure a qualcuno fa comodo la rotta da kamikaze che questa gente sta facendo prendere al Paese. E, anzi, fa di tutto perché prosegua. O, paradosso dei paradossi, raggiunge il suo apice con il deragliamento di questa alleanza e i fuochi artificiali che seguiranno, come dimostra in queste ore il centrodestra in rinnovata fibrillazione.

Oltretutto, questa coalizione è sostenuta in maniera suicida da un consenso popolare record, riconducibile per il 90% alla lotta senza quartiere (e senza costrutto, alla prova dei fatti) del ministro Matteo Salvini contro gli sbarchi e l’immigrazione in genere. Certo, il malcontento era tanto, la paura in certe aree del Paese pure e assolutamente legittima, ma qui siamo oltre: qui siamo alla paranoia elevata a metodo di governo, basti vedere in concreto cosa abbiamo ottenuto al vertice di Salisburgo di giovedì scorso proprio in materia di migrazioni. Zero. Isolamento totale, tutto prosegue com’è. Anzi, peggiorerà, perché dopo esserci inimicati anche l’Austria per la questione dei doppi passaporti per gli altoatesini di lingua tedesca, anche i nostri presunti amici del Gruppo di Visegrad ci hanno platealmente – e per primi, oltretutto – voltato le spalle. Tanto che Conte, ormai ridotto a caricaturale sponsor della pro-loco di San Giovanni Rotondo e del culto di Padre Pio, ha tirato fuori la ricetta mercantilistica della sanzione pecuniaria per chi decide di non accettare ricollocamenti: accidenti, ci voleva davvero un governo di fenomeni per arrivare a questa determinazione. Non vuoi migranti? Paga la multa e se li accolla qualcun’altro. Come fossero bancali di merce. Ma ripeto, qui sotto c’è dell’altro.

Deve per forza esserci dell’altro, ancorché il contesto da “rana bollita” di chomskiana memoria in cui si è adagiata l’opinione pubblica italiana potrebbe far pensare a un buco temporale, quasi espiatorio, in cui è precipitato il buon senso collettivo. Ma i mercati non sono l’opinione pubblica, i mercati ragionano e si muovono per interessi non dell’oggi e nemmeno del domani: guardano avanti e puntano al bottino grosso, non al premio di consolazione o al minimo sindacale. Perché, infatti, assaltare il nostro debito pubblico in grande stile, quando al governo – “grazie” alla rabbia per l’incapacità conclamata di chi lo ha preceduto, in varie fasi e con vari gradi di responsabilità – ci sono dei professionisti della destabilizzazione, generatori di caos da competizione? Lasciamoli fare, soprattutto ora che sta arrivando il redde rationem del Def, con il quale potrebbero tirare una mazzata di quelle strutturali ai conti pubblici e allo loro sostenibilità post-Qe.

Perché signori, due cose guardano i mercati, due soltanto: le elezioni di mid-term del 6 novembre negli Usa e la fine reale del Qe della Bce, ovvero cosa deciderà di fare Mario Draghi in vista di gennaio fra limitarsi a reinvestire i bond detenuti o dare vita a una versione europea di Operation Twist, operando uno swap sulle scadenze obbligazionarie per garantire ancora un po’ di scudo temporale dal rischio spread alle economie più indebitate. Come la nostra. O la Spagna. Punto, il resto è fragoroso coté, a partire dalla farsesca guerra commerciale fra Usa e Cina e la più che prevedibile, stante le mosse della Fed, crisi valutaria/debitoria dei mercati emergenti. E vale lo stesso ragionamento dell’Italia giallo-verde anche per gli Usa, signori miei, poiché si tratta proprio una strategia politica precisa.

Quale? Aver fatto arrabbiare la gente a tal punto da mandare al governo dei burattini teleguidati, spacciandoli per rivoluzionari alla Robespierre e, contestualmente, lasciarli liberi di sfasciare tutto a tal punto che si porterà la gente a reclamare il ritorno del vecchio, della paludata stabilità delle elites, il trionfo postumo e vendicativo dell’oligarchia grazie allo specchietto per le allodole proxy dei suoi guastatori e stuntmen da filmaccio d’azione anni Settanta. Basti pensare a quale sia la base reale del presunto e millantato successo economico di Donald Trump: il deficit. Ovvero, l’indebitamente del Paese. Parlano chiaro, in tal senso, i dati del Budget. Mese dopo mese, l’asticella sale inesorabilmente a livello di comparazione su base trimestrale e annua: solo ora, il rendimento del decennale Usa è tornato sopra la soglia psicologica del 3%, ma, anche in questo caso, si tratta tutto di illusionismo finanziario da necessità di emergenza indotta. Quel valore sale e scende in base alle necessità politiche, commerciali e diplomatiche: i fondamentali, di fatto, non contano pressoché nulla.

E state attenti alla dinamica che sto per mostrarvi, perché troverà senso più generale e compiuto nella seconda parte di questo articolo: guardate questo grafico, ci mostra come la politica di destabilizzazione della valutazione del dollaro attuata da Donald Trump (prima attaccando le attività manipolatorie sulla moneta di Cina e Ue, poi direttamente la Fed per la sua scelta di alzare i tassi di interesse) ha portato la detenzione estera di Treasuries al minimo a 15 anni del 40% del totale, trasformando (anzi, giapponesizzando) la domanda interna e trasformando gli americani in acquirenti marginali del proprio debito.

E perché è stato fondamentale creare questo cuscinetto di fiducia forzata dei cittadini (retail ma anche Fondi pensione) nel debito pubblico Usa, spingendo non poco sul tasto retorico da film di John Wayne del patriottismo autarchico e sovranista? Perché è strumentale alla seconda mossa schumpeteriana dell’amministrazione Trump a livello di ridefinizione degli equilibri economici globali, dopo la messinscena della guerra commerciale con Pechino. Domani vedremo come.

(1- continua)





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