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Home » Economia e Finanza » Banche » Bankitalia » BANKITALIA/ L’alternativa alla nazionalizzazione (e alla proprietà straniera)

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BANKITALIA/ L’alternativa alla nazionalizzazione (e alla proprietà straniera)

Alla Banca d'Italia è rimasto solo il compito di monitoraggio dell'economia e l'operazione costerebbe 7,5 miliardi. Ma c'è una soluzione più conveniente ed efficiente

Paolo Tanga
Pubblicato 23 Febbraio 2019
bankitalia

La sede di Banca d'Italia (LaPresse)

Da quando ho iniziato a scrivere su questo quotidiano mi son trovato spesso a non condividere diverse importanti decisioni e orientamenti assunti dalla Banca d’Italia. Mi riferisco, in particolare, alla progressiva riduzione della sua funzione di Vigilanza, al favorire il trasferimento all’estero della proprietà delle banche attraverso la modifica del quadro normativo dapprima delle banche pubbliche e successivamente di quello delle Popolari; infine, di quello delle banche di credito cooperativo, arrivando persino a costringere al ritiro di iniziative legislative volte a ripristinare la conformità delle leggi al quadro costituzionale in materia di cooperazione. Da quanto precede vedo con favore quelle iniziative che mirano a ripristinare nella suddetta banca una visione prospettica che salvaguardi le esigenze economiche del nostro Paese.


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In funzione di ciò, dovrei esultare alla proposta di attribuire al ministero dell’Economia la proprietà dell’intero capitale della Banca d’Italia, peraltro – come aveva ben preconizzato la firmataria del provvedimento – di fatto in mano a soggetti privati esteri. Infatti, i primi tre azionisti, Intesa SanPaolo, Unicredit e Cassa di Risparmio di Bologna (quest’ultima interamente di proprietà del primo azionista), hanno rispettivamente una componente maggioritaria o quasi totalitaria di azionisti stranieri e una partecipazione al capitale dell’Istituto centrale italiano superiore al 34,6% a fronte del 9% formalmente ammissibile (103.843 quote su 300.000).


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L’iniziativa prevede che il Tesoro riacquisti le azioni al vecchio valore nominale (1.000 lire, cioè 51,6 centesimi di euro in luogo del nuovo, pari a 25.000 euro) dai partecipanti che hanno avuto da sempre le quote in portafoglio e al nuovo valore da coloro che le hanno comprate dopo la rivalutazione. Tale circostanza, peraltro, non sarebbe fattibile, anche perché causerebbe una disparità di trattamento tra i partecipanti, in contrasto sia con la rivalutazione imposta per legge al valore delle quote (unica contropartita prevista a carico delle banche a fronte del rilevante vantaggio concesso dalla crescita del dividendo a loro favore), sia con quanto a suo tempo dichiarato dal rappresentante di partito che ha proposto la nazionalizzazione dell’Istituto.


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Non bisogna nemmeno trascurare gli strali che sarebbero lanciati per l’asseribile asservimento della Banca centrale ai voleri della politica. Non è da meno la possibilità, proprio in virtù della necessità di rispettare la parità di condizioni, di dover sopportare un esborso di 7,5 miliardi di euro, trasformando l’operazione in un non trascurabile supporto alla finanza, quando dovrebbe essere l’economia reale a venir liberata dalle problematiche create da una moneta emessa a debito, peraltro svincolata dai correttivi del quadro legislativo della legge bancaria del 1936.

Cosa riuscirebbe a ottenere il Tesoro attraverso la Banca d’Italia? Forse l’esercizio della Vigilanza? No, per quanto già detto all’inizio, l’Istituto centrale si è adoperato affinché la stessa venisse interamente demandata alla Bce. Forse l’oro dei cittadini? Una legge di chiarificazione fatta esclusivamente per calmare possibili bollori e appropriazioni indebite sarebbe sufficiente.

Rimane l’analisi economica. Tuttavia, se ci trovassimo di fronte a un unico soggetto proprietario, sarebbero moltissimi i contestatori delle risultanze delle analisi e delle tradizionali Considerazioni finali del Governatore. Eppoi il costo, anche se dovesse essere contenuto nei valori minimi ipotizzati dal provvedimento di nazionalizzazione, sarebbe spropositato.

Mi permetto di suggerire uno strumento completamente diverso, che ho avuto modo di esplicitare nei due libri da me pubblicati. La proposta consiste nella costituzione di associazioni territoriali che abbraccino tutti gli abitanti di un’area territoriale di contenute dimensioni (non più di 5mila nuclei familiari) che al loro interno effettuino le transazioni privilegiando gli acquisti fra gli associati, monitorati attraverso uno strumento di scambio autonomo che consenta di effettuare all’associazione stessa le rilevazioni statistiche delle relazioni economiche.

Una struttura di coordinamento tra i medesimi organismi consentirebbe di disporre di dati esclusivi e puntuali capaci di organizzare lo sviluppo armonico dell’economia dei territori con potenzialità e precisione inusitate.

L’avvio di queste associazioni potrebbe avvenire con grandi vantaggi da ciascuna delle comunità locali che già fossero disponibili; certamente l’attenzione della politica farebbe immediatamente decollare l’operazione a livello nazionale, con tutti i vantaggi possibili, soprattutto in termini di costo e di riduzione degli interessi sul debito pubblico.


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