Molto clamore nel mondo politico e un tonfo in borsa per i titoli bancari in generale e per quelli degli istituti più gravati da “sofferenze” di vario tipo (crediti inesigibili, crediti incagliati, Non performing loans, in acronimo Npl) è stata la reazione alle lettere inviate a tutti gli istituti per i quali la vigilanza è affidata direttamente alle autorità europee. In queste lettere si avvertiva che il loro portafoglio dovrà essere “ripulito” nell’arco di sette anni. Percorsi e scadenziari individuali verranno definiti, tra ciascun istituto e le autorità di vigilanza europea. I percorsi individuali sono una strada ragionevole perché gli istituti dotati di maggior capacità patrimoniale abbiano i margini per non fare tutti gli accantonamenti subito senza così imputare al conto economico eventuali perdite e attendere i tempi più opportuni per cedere i crediti.
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Le lettere non sono giunte all’improvviso. Da tempo la Banca centrale europea e in particolare il Meccanismo di vigilanza europeo (Mve) sottolineavano la necessità e urgenza di mettere ordine negli Npl. Sono anche il segno – sottolineato la settimana scorsa su questa testata – del cambiamento di indirizzo del Mve: non aspettare che la disciplina venga solo o principalmente dal “mercato”, ma seguire da presso le banche in difficoltà e se del caso intervenire in via preventiva (come fatto per la Carige).
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Com’è noto, l’istituto con maggior sofferenze è il Monte dei Paschi di Siena, il cui conto di Npl, secondo quanto riferiscono fonti giornalistiche, potrebbe arrivare a 8,5 miliardi di euro con il rischio che a pagare sia l’attuale proprietario, ossia lo Stato, cioè i contribuenti. Altri istituti con serie sofferenze sono la Carige, la Ubi, l’UniCredit e il Banco Bpm. Se avessimo un sistema bancario ben capitalizzato e un mercato secondario efficiente per le sofferenze, questi problemi o non ci sarebbero o sarebbero meno preoccupanti. Sarebbero meno inquietanti se ci fosse il terzo pilastro dell’Unione bancaria europea, la “garanzia europea” per i depositi sino a 100.000 euro con condivisione dei rischi e protezione “europea” dei risparmiatori.
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È comprensibile il clamore politico, soprattutto da parte del Governo e dei partiti e movimenti che lo rappresentano e sostengono in Parlamento. Il timore è che una lettura da parte dei mercati delle esternazioni delle vigilanza europea acceleri crisi potenziali e renda necessari interventi pubblici prima delle elezioni europee. O ancor peggio avvicini al collasso alcuni istituti prima di fine maggio. Due eventualità che si pagherebbero caro in termini di consensi.
Questo timore è a mio avviso errato. Non è certo intenzione né della Bce, né del Mve l’accelerazione e la deflagrazione di crisi. Al contrario, fissando una tempistica più lunga (2026) di quella originariamente contemplata (2021) si permette una risoluzione più ordinata degli Npl evitando di essere costretti a fare accantonamenti nei momenti meno opportuni. Si è già vista una maggiore tranquillità dei mercati nelle ultime sedute della settimana. Quindi, si allontana il pericolo di un effetto domino che – proprio a causa degli avvertimenti europei per lo smaltimento delle sofferenze – possa incidere sullo stato di salute generale dell’economia italiana, con un Pil che nel quarto trimestre del 2018 potrebbe essere stato ancora negativo, spalancando la strada alla recessione.
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Il tema va visto nel quadro dell’Unione bancaria europea che, in ogni caso, è essenziale per il buon funzionamento dell’unione monetaria. Circa quattro fa nella prefazione di un libro collettaneo in inglese di cui sono stato uno degli autori (a cura di Emilio Barucci e Marcello Messori Towards the European Banking Union- Achievements and Open Problems, Passigli Editori 2014) si sottolineava come “la mancanza di un meccanismo privato (europeo) di sostegno non è compensato dall’esistenza della mano pubblica. Nel funzionamento dei mercati finanziari europei non si esclude l’intervento della mano pubblica. Il problema è acuito dal fatto che manca il terzo pilastro dell’Unione bancaria europea: la garanzia comune sui depositi”. Il volume era il risultato di una ricerca dell’istituto di analisi Astrid.
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Ciò vuol dire, per Governo e Parlamento, insistere in sede europea per il completamento dell’Unione bancaria. È questa la via corretta per affrontare e risolvere i problemi del nostro settore bancario. Da integrarsi al più presto con quella Unione europea dei mercati dei capitali, su cui si era vagamente cominciato a lavorare ma che non è ancora ai nastri di partenza. Un’unione monetaria monca fa male a tutti, soprattutto ai più fragili.