INCHIESTA/ I dati che “smentiscono” il calo del debito italiano

- Ugo Arrigo

Eurostat ha fatto sapere che il debito pubblico italiano è diminuito nell’ultimo trimestre del 2013. UGO ARRIGO spiega come ciò sia possibile, dato che le apparenze indicano il contrario

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I lettori de Il Sussidiario che leggono i mei interventi in tema di finanza pubblica si saranno sicuramente stupiti nel leggere le pagine economiche dei giornali di ieri. Esse riportavano infatti con enfasi alcuni dati relativi al debito pubblico dell’Italia appena pubblicati da Eurostat, l’organismo statistico dell’Unione europea che ha anche il compito di monitorare il rispetto da parte degli stati dell’Eurozona dei parametri di Maastricht. In base a Eurostat, che è la voce ufficiale sul tema, il debito pubblico italiano è diminuito nel terzo trimestre 2013 in rapporto al Pil e persino in valore assoluto. In particolare, in rapporto al Pil risulta essersi abbassato dal 133,3% del secondo trimestre al 132,9% del terzo, con una diminuzione di 0,4 punti percentuali, mentre in valore assoluto risulta diminuito dai 2.076,4 miliardi di euro di fine giugno 2013 sino a 2.068,7 a fine settembre scorso, con una riduzione di 7,7 miliardi. Si tratta di dati molto positivi, i quali potrebbero rappresentare un’importante inversione di tendenza rispetto alle dinamiche alle quali abbiamo sinora assistito. Siamo tuttavia sicuri che sia il caso di festeggiare la notizia?

Sembrerebbe un miracolo, seppur limitato a un trimestre. Davvero nei tre mesi estivi il settore pubblico del nostro Paese l’insieme degli enti di quella che noi chiamiamo Pubblica amministrazione ha registrato incassi superiori ai pagamenti per 7,7 miliardi, facendo ridurre lo stock del debito di un pari ammontare? Davvero tra luglio e settembre abbiamo azzerato il fabbisogno, portato il bilancio pubblico in probabile attivo (seppur solo in termini di cassa) e ridotto lo stock del debito? Difficile crederci considerando tutte le altre informazioni, di segno opposto, che ci sono state sinora date sulla finanza pubblica. Difficile nello stesso tempo non crederci. Infatti Eurostat, voce ufficiale dell’Unione europea, non pubblica di certo dati non veritieri. Questo deve essere stato il ragionamento che hanno fatto diversi autorevoli commentatori nel salutare molto positivamente questi dati.

Ma se Eurostat ha ragione allora non può essere vero quello che ha scritto su queste pagine Ugo Arrigo solo una settimana fa: “La politica economica del 2014 dovrà fare i conti con (una) pesante eredità: (1) prospettive di crescita molto deboli dopo due anni recessivi in cui si sono persi quasi quattro punti e mezzo di Pil reale; (2) deficit pubblico che in rapporto al Pil ha smesso di scendere e che si farà fatica a contenere nel 3% richiesto dal trattato di Maastricht; (3) debito pubblico in rapporto al Pil che, dati i due fattori precedenti, non si riesce a fermare e neppure a rallentare”.

Bisogna dare una spiegazione accurata che è tuttavia molto semplice: Eurostat nel registrare il debito pubblico degli Stati che hanno adottato l’euro segue il trattato di Maastricht e dunque osserva il cosiddetto debito pubblico lordo, non depurato dalle eventuale giacenze liquide degli stati, depositi presso le banche centrali, impieghi presso istituzioni finanziarie nazionali e prestiti tra stati o conferimenti ai meccanismi europei di sostegno finanziario. In sostanza tutta quella parte del debito che non è servita a pagare spesa pubblica non coperta dalle entrate ma si è trasformata in crediti e che è destinata a rientrare quando essi saranno restituiti. Noi invece siamo interessati al debito pubblico semplicemente poiché la velocità della sua crescita ci permette di valutare le condizioni della finanza pubblica. Di esso ci interessa pertanto solo quella parte che è stata contratta per finanziare spesa pubblica in eccesso rispetto alle entrate, dunque il debito pubblico netto.

Questa diversa configurazione è facilmente calcolabile, utilizzando i dati dei bollettini mensili della Banca d’Italia su fabbisogno e debito, sottraendo al debito pubblico lordo (che sarà successivamente certificato da Eurostat) i depositi presso la Banca d’Italia, gli impieghi della liquidità, gli impieghi presso istituzioni finanziarie, i prestiti diretti ad altri stati e i conferimenti ai meccanismi europei di sostegno ai paesi in difficoltà. Se togliamo queste voci, che rappresentano attività a fronte della passività del debito, otteniamo il debito pubblico netto, la grandezza di cui abbiamo bisogno per valutare le tendenze della finanza pubblica.

Andiamo allora a vedere cos’è successo con precisione nel terzo trimestre 2013, calcolando nel modo sopra indicato il debito pubblico netto a fine giugno e a fine settembre. Il risultato è rappresentato nel grafico seguente.

Grazie al grafico siamo in grado di svelare il mistero: mentre tra giugno e settembre 2013 il debito pubblico lordo dell’Italia è diminuito di quasi 8 miliardi, come illustrato dalla freccia verde, quello netto, segnalato dalla freccia di colore rosso, non solo non è diminuito, ma è anzi aumentato di quasi 29 miliardi, incremento che in solo trimestre rappresenta una crescita notevole.

Questa cifra rappresenta l’eccesso di pagamenti rispetto agli incassi del periodo che tuttavia il Tesoro non ha pagato emettendo nuovi titoli pubblici, nel qual caso si sarebbe accresciuto in misura equivalente anche il debito lordo e l’Eurostat ce lo avrebbe segnalato coi dati dell’altro ieri, ma ha preferito utilizzare liquidità già disponibile e depositi presso la Banca d’Italia. Poiché tale disponibilità è stata ridotta di quasi 36 miliardi a fronte di un’esigenza di pagamenti non coperta da incassi per 29 miliardi, ecco che apparentemente il debito si è ridotto. Ma non è il caso di festeggiare.

Purtroppo il debito non è riducibile nel suo livello. Ci dobbiamo accontentare di frenarne la crescita e dobbiamo cercare di puntellarlo dal lato del denominatore attraverso la crescita economica, purtroppo cancellata nell’ultimo biennio da incomprensibili manovre recessive. E la crescita non può ovviamente essere perseguita con la spesa pubblica ma solo attraverso scelte private di investimento e di consumo che nuove e differenti politiche pubbliche debbono rendere possibili.





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