Corsi di educazione sessuale a scuola: c’è bisogno del consenso delle famiglie. Che però spesso non sanno cosa proporre ai figli su questo tema
La decisione del ministro Valditara di permettere ai genitori di chiedere l’esonero per i propri figli dai corsi di educazione sessuale nelle scuole ha provocato, come era prevedibile, grandi polemiche. Si rischia, come accaduto a proposito delle lezioni di religione, che diversi ragazzi debbano uscire dalle classi senza una vera alternativa.
Da una parte la decisione del ministero ribadisce giustamente il diritto costituzionale della famiglia di avere il primato nel compito delicato dell’educazione dei propri figli. In questo senso, bisognerebbe sottolinearlo, questa decisione si discosta da una pretesa educativa di Stato di tipo fascista o sovietico, che purtroppo anche molti cosiddetti antifascisti, spero inconsciamente, sostengono di fatto.
Dall’altra parte, tranne alcuni lodevoli esempi di educazione anche nella sfera sessuale condotta in famiglie cristiane, spesso si rifiuta il modello laicista, ma non si sa come proporre un’alternativa. È lo stesso problema, non a caso in senso inverso, dell’insegnamento della religione.
Sia chiaro: secondo me anche l’educazione sessuale, come l’educazione religiosa, non può limitarsi a una sorta di istruzione catechistica sul sesso. La prima educazione sessuale, come quella religiosa, il bambino, fin da piccolo, la riceve dal modo con cui si vive in famiglia. Da come i genitori si rapportano tra loro, da come giudicano e vivono la realtà.
E qui, a questo punto, mi verrebbe da dire che i primi corsi di educazione sessuale, o rieducazione sessuale, bisognerebbe organizzarli per gli adulti. Compresi alcuni super esperti, molto preparati sull’argomento ma portatori di esperienze fallimentari nella vita personale.
D’altra parte, anni di preparazione di molte coppie al matrimonio cristiano mi hanno permesso di verificare come in molti giovani che per lo più venivano da ambienti cattolici, c’era una grave impreparazione sul tema della sessualità, che comportava, in pratica, un adeguarsi con qualche complesso di colpa, al comportamento di tutti o ad un’astinenza coraggiosa che non sempre aveva il conforto di adeguate motivazioni.
Urge un lavoro, comunque tardivo, non solo di riflessione, anche negli ambienti cattolici, di modo che, come in altri campi, si sia in grado di proporre a tutti una ragionevole alternativa.
In questo lavoro sarebbe giusto aspettarsi anche un particolare contributo da parte delle scuole cattoliche, specialmente da quelle gestite insieme a gruppi di genitori che hanno fatto di questa scelta un punto fermo della loro vita. Un contributo serio, capace anche di autocritica, come del resto dovrebbero fare i sostenitori laici dell’educazione sessuale davanti all’evidente crisi dei nostri giovani, di tutti i nostri giovani, compresi i figli di quella che era stata presentata come la nuova rivoluzione sessuale.
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