La realtà non si cambia per decreto. Occorre percepire le derive presenti nella società e la complessità delle interdipendenze che la caratterizzano. La politica, così come i recenti tentativi di riforma del sistema educativo (Berlinguer e Moratti), hanno segnato il passo per non aver compreso questo processo. L’attuale governo sembra procedere per interventi correttivi e parziali, il che potrà produrre effetti positivi se saprà corrispondere al bisogno di buona amministrazione che le istituzioni scolastiche e formative chiedono da tempo. Non per questo, però, va abbandonata la capacità di una visione di insieme e la consapevolezza degli effetti che si determinano tra le diverse componenti del sistema. Queste considerazioni valgono per la scuola e, a maggior ragione, per la formazione professionale, oggi in difficoltà nel realizzarsi secondo un disegno che, sia pure a fatica, alla fine era emerso anche nel nostro Paese.
Le questioni in gioco sono soprattutto tre e riguardano la formazione iniziale, il senso di una filiera che assicuri la necessaria continuità verso l’alto, la formazione superiore. Con l’obbligo di istruzione a 16 anni nasce l’esigenza di ripensare le modalità di acquisizione di una qualifica nell’ambito del diritto-dovere, ovvero nella fascia 14-18 anni. Queste modalità potranno anche restare diverse, ma non si può pensare – né la legge lo prevede – che si risolvano in un biennio che prescinda da una terminalità legata ad una qualifica iniziale (tra l’altro di secondo livello europeo). Il contrasto alla dispersione non può essere disgiunto dal successo formativo, ovvero dall’acquisizione di qualcosa (diploma o qualifica) che dia il senso di un percorso compiuto e utile per l’inserimento nel lavoro e/o per il proseguimento degli studi. Questo è il vero nodo critico: mentre infatti il passaggio alla secondaria superiore (includendo la formazione) arriva al 95-96%, la dispersione è al 25%; sono i giovani che escono da scuola nel primo o secondo anno, soprattutto degli istituti professionali, e che talvolta non troviamo né a scuola né al lavoro.
La seconda questione si ricollega alla ricostituzione degli istituti tecnici e alla ripresa di responsabilità diretta degli istituti professionali da parte dello Stato. E’ una decisione che restituisce senso e valore all’esperienza dell’istruzione tecnica e che toglie gli IPS da un limbo, tra Stato e Regioni, dove non trovano soluzione le criticità presenti (l’eccessiva rincorsa di professioni troppo specifiche, l’elevata spinta alla dispersione scolastica). Questa scelta, non priva di soluzioni innovative (ad esempio rendere fondazioni le scuole), lascia però scoperta la formazione professionale. C’è, è vero, il riconoscimento che le Regioni diventano “padrone” riconosciute di tutte le qualifiche (incluse quelle rilasciate da istituti statali). Ma c’è anche l’esigenza di capire come assicurare alle qualifiche triennali opportunità di sviluppo verso l’alto, dentro filiere specifiche della formazione professionale. In caso contrario davvero si condannerebbero quote significative di giovani a percorrere sentieri ciechi. Del resto questa è la strada più convincente per immaginare, da parte delle Regioni, una capacità di risposta alla grande responsabilità che la Costituzione attribuisce loro: prendersi cura della qualificazione professionale dei propri cittadini. Una “scuola regionale”, se così si può dire (come accade in molti Paesi d’Europa), costruita in una logica di complementarietà dentro l’intera offerta formativa, attenta ai bisogni differenziati delle imprese e delle persone.
La terza questione concerne l’istruzione e la formazione superiore, non accademica, di livello terziario. Anche qui siamo di fronte ad una precisa iniziativa da parte della scuola, con l’istituzione dell’istruzione tecnica superiore, che ha tutti i presupposti per configurarsi come livello terziario a carattere ordinamentale. Il suo apparentamento con i poli formativi costituisce un’aggregazione in filiere che aumenta il potenziale di coerenza con i fabbisogni territoriali e la capacità di costruire reti formative, soprattutto se crescerà l’integrazione con l’offerta delle Regioni e con le loro competenze in materia di programmazione e organizzazione. In verità emerge una potenziale contraddizione rispetto alla spinta verso l’alto dei processi di istruzione e formazione: la società della conoscenza propone e impone questa spinta, ma le attese espresse dalle imprese sembrano insistere invece ancora su quote cospicue di lavoro meno istruito. E tuttavia, le previsioni che riguardano un’economia capace di competere ci parlano di professionalità alte e di istruzione diffusa. La contraddizione non può che essere risolta guardando più al futuro che a un presente che non ci promette molto. Ecco perché bisogna guardare avanti e assumere una visione organica, capace di assicurare qualità ed equità ai processi formativi e consentire ad essi, proprio perché più forti, di assolvere al loro compito dentro una concezione della formazione come diritto soggettivo che percorre l’intero arco della vita. E’ la vera sfida di un Paese che riconosce il lavoro e la sua qualificazione come reale sostegno alla competitività e, al tempo stesso, strumento di autonomia e promozione delle persone.