Nel contesto dell’emergenza educazione il tema dell’università occupa un posto di grande rilievo, benché non sia sentito sempre come tale. La pubblicistica tende ad identificare l’università come il dominio dei docenti baroni che usano di questa struttura per loro scopi di potere e non danno agli utenti quanto essi chiedono, cioè una formazione, e a sottostimare il fatto che per moltissimi utenti questi anni sono fondamentali per la loro crescita personale e professionale. È questo elemento sostanziale che dovrebbe guidare ogni riflessione sull’università, e non elementi di contorno che invece sembrano ormai polarizzare la discussione. Così, si progettano tagli indiscriminati, si ipotizzano provvedimenti rivoluzionari quali l’abolizione del valore legale del titolo di studio, la trasformazione di università in fondazioni private: tutte cose sensate che restano però tali solo se adeguatamente contestualizzate e correttamente attuate mentre non lo sono per forza propria, formule magiche che – pronunciate – avrebbero il potere di cambiare automaticamente la realtà.
Perché singoli progetti possano essere efficaci e non meramente distruttivi vi sono delle condizioni da cui non si può prescindere. La prima fondamentale condizione è un conoscenza approfondita degli elementi del sistema universitario, sistema che è profondamente differenziato: vi sono piccole università e grandi università, vi sono realtà universitarie inserite in regioni che producono e altre che fungono da ammortizzatori sociali contro la disoccupazione, vi sono enti con una vocazione spiccata alla ricerca (non molti in verità, e anche questo sarebbe un tema da affrontare con urgenza) e altre che svolgono la loro funzione educativa prevalentemente insegnando e così via. Conoscere per riformare, perché riformare in modo indiscriminato senza tenere conto delle diversità esistenti potrebbe essere un rimedio peggiore del male. È per questo che un adeguato sistema di valutazione è il primo passo per progettare riforme che non siano meri progetti a tavolino.
La seconda condizione è quella di sapere, nei limiti del possibile, quale è il disegno globale verso cui si sta andando. Se questo è una apertura al mercato che sia la più ampia possibile, allora occorrerà procedere con molta cautela perché si tratta di una rivoluzione copernicana che, se non adeguatamente preparata, potrebbe creare gravi danni. Apertura al mercato comporta molti passi di preparazione che vanno dal risanamento dei bilanci, alla possibilità di reclutare personale oltre gli attuali canali concorsuali, da un ampliamento reale dell’autonomia delle singole università alla creazione di reti territoriali di supporto, che possano immettere risorse nel sistema e non solo drenarle.
E, infine, occorre poter sperimentare e poi confrontare i risultati delle sperimentazioni: in questo si potrebbe concretizzare un rinnovato ruolo delle strutture nazionali di governo che dovrebbero sostenere le strategie e non semplicemente incrementare i pesi burocratici che essi sovente pongono a carico delle università o delle regioni in cui esse sono inserite.
L’elenco potrebbe continuare ma la sostanza del discorso non cambia: riformare un sistema centralistico, burocratico e tendenzialmente inefficiente quale è il sistema universitario italiano non è un gioco da ragazzi e non può essere lasciato in balia di singole contingenze politiche. Conoscere per valutare, investire e non limitarsi a tagliare indiscriminatamente, sperimentare ed elaborare strategie. Ce n’è abbastanza per tutta una legislatura.