Da anni il sistema universitario italiano è in sofferenza; da anni lo Stato cerca di porre rimedio dal centro con provvedimenti generali che pongono regole sempre più stringenti e dettagliate sugli aspetti più disparati della vita universitaria, dalle classi di laurea e di laurea specialistica, ai crediti minimi per i corsi di laurea, a requisiti minimi e massimi per il reclutamento, il pensionamento, la contabilità, le modalità concorsuali, così sperando di porre rimedio alla crisi.
Il nuovo ddl, su cui pure sarà giocoforza soffermarsi, è l’ennesima espressione di questa filosofia, una filosofia che invece di guardare ai casi, alle best practices, alle espressioni più compiute dell’autonomia universitaria e territoriale come modelli di stimolo per il sistema pensa sempre in termini di palingenesi normativa, il cui artefice è sempre lo Stato.
Così, mentre si promette di riformare l’intero sistema, si pongono limiti e condizioni all’autonomia, nascosti – ma nemmeno tanto – sotto la promessa del cambiamento radicale, della svolta epocale. Questo non va bene. E un esempio per tutti valga a documentare il giudizio. Guardiamo con attenzione alle norme sul diritto allo studio; esse rispecchiano puntualmente le logiche dell’intero ddl.
Si parla di merito (art. 4) e così si istituisce un fondo nazionale cui si accederebbe tramite un esame nazionale (anche nel Ventennio c’erano i Littoriali, per chi se li ricorda); si vince la borsa che però serve a coprire le tasse universitarie e i costi di mantenimento (e anche i prestiti d’onore, tutto gestito centralmente); scompare il Fondo Integrativo che veniva distribuito tra le Regioni per coprire le borse di studio quando la tassa per il diritto allo studio era insufficiente a garantire la borsa agli idonei (tassa peraltro determinata in modo uniforme a livello nazionale nel suo livello massimo), mentre resta una delega per “riformare” il sistema vigente del DSU che non è affatto da riformare ma semplicemente da abrogare, visto che il Titolo V attribuisce alle Regioni la potestà esclusiva su questa materia (quella potestà, per intendersi, che ha consentito alla Regione Lombardia di creare la Dote per le scuole e di conferire alle Università la gestione delle borse, valorizzandone l’autonomia nella logica della sussidiarietà).
E non si invochi, come sempre si fa, la clausola sui livelli essenziali delle prestazioni, che sarebbero da definirsi da parte dello Stato. Questo lo si sa benissimo ma si sa anche – e la Corte lo ha ribadito più volte – che questa non è una norma bonne à tout faire, utile a mantenere alla greppia la burocrazia statale lasciandone intatte le funzioni e la gestione delle relative finanze.
Questa norma è una norma dai contenuti minimali, da determinarsi d’intesa con le Regioni, che non può né deve evirare le competenze regionali ma deve lasciare ampi margini di libertà per adattare le regole alle diverse condizioni locali.
In questi anni le Regioni hanno tentato strade per sostenere il sistema universitario, le Università hanno adottato in molti casi politiche interessanti tendenti a risanare i propri sistemi di governo. Sarebbe bene non cancellare tutto questo in nome di una efficienza (o presunta tale) semplicemente governata dal centro.