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Home » Educazione » SCUOLA/ Come si diventa bravi? Serve imparare di meno e capire di più…

  • Educazione

SCUOLA/ Come si diventa bravi? Serve imparare di meno e capire di più…

Silvano Tagliagambe
Pubblicato 16 Novembre 2010
scuola_bambino_secchioneR400

(Immagine d'archivio)

La tradizione italiana dell’umanesimo e del rinascimento, dice SILVANO TAGLIAGAMBE, ha prodotto un’impressionante varietà di eccellenze. Possiamo ancora imitarla?

Dal dibattito sulla «politica delle eccellenze» e sulla valorizzazione dei «talenti», che si è sviluppato in questa sede, sono emersi tre punti che a me sembrano particolarmente importanti e che acquistano rilievo ancora maggiore se sono fatti convergere. Il primo, evidenziato da Cominelli, è che questa politica ha un senso e va nella direzione giusta solo a patto che si comprenda che essa è solo una forma parziale e un anticipo di un quadro più generale, orientato con decisione verso la personalizzazione dei processi di apprendimento.


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Il secondo è il richiamo di Daniela Lucangeli a quello che Lev Vygortskij definiva «sviluppo prossimale». Si tratta, com’è noto, di un concetto al quale egli si riferiva al fine di escludere due cose: che lo sviluppo spontaneo delle rappresentazioni individuali, quelle che corrispondono alle nozioni del senso comune e si formano spontaneamente e inconsciamente, possa condurre ai concetti scientifici, che hanno valore collettivo e vengono assimilati in modo cosciente: e che il processo di passaggio dalle une agli altri possa essere il risultato d’una semplice istruzione fornita dall’esterno, che viene recepita e assimilata tale e quale.


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Il contributo originale di Vygotskij all’analisi di questo problema è costituito proprio dall’ipotesi della presenza, nel cervello, di una zona di sviluppo prossimale, che rende conto del modo in cui l’autorità dell’adulto più competente aiuti il giovane a raggiungere il terreno intellettuale superiore, a partire dal quale egli può riflettere in maniera più impersonale e astratta sulla natura delle cose. Questa ipotesi mette dunque in campo una sorta di «interfaccia» tra il sociale e l’individuale, una zona di confine in cui le rappresentazioni collettive e storicamente istituzionalizzate interagiscono concretamente con il mondo delle credenze individuali e influiscono su di esso, favorendo la crescita e l’innalzamento, specifico e «personalizzato» appunto, del livello dei suoi contenuti.


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Il terzo punto è la valorizzazione, da parte di Ana Millán Gasca, della tradizione della cultura italiana, da lei considerata provvidenziale per la tenuta della scuola, dei licei, degli istituti tecnici. Le recenti Indicazioni sugli obiettivi specifici di apprendimento dei licei insistono molto su questo aspetto, che può essere utilmente “riletto” ricollegandosi a quanto è stato detto di recente da un grande intellettuale d’oltre confine, Marc Fumaroli, critico e storico, accademico di Francia. In occasione del recente convegno Idee italiane. Un osservatorio sulla cultura del paese egli si è spinto sino a investire la nostra cultura della responsabilità di un nuovo Rinascimento europeo. Alla base di questa sua impegnativa dichiarazione vi è la distinzione tra «cultura di massa», prodotto omogeneo, indifferenziato, che utilizza il bombardamento pubblicitario, dalla nascita alla morte, per imporsi, e «cultura capillarmente diffusa e incorporata», frutto della interazione e del dialogo di numerose culture artigianali e genuine. 


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Quest’ultima cultura, a differenza della prima, è frutto di quella che possiamo chiamare «capacità di commutazione», abilità di connettere competenze e conoscenze diverse senza mortificarne la specificità e l’autonomia, ma anzi esaltandole nello scambio reciproco. L’Italia della grande tradizione dell’umanesimo e del rinascimento è stata in grado di sfornare un’impressionante varietà di eccellenze in campi diversi proprio in virtù di questa fertile ibridazione e dell’attitudine non  semplicemente a recepire in modo indifferenziato un’eredità culturale che veniva trasmessa, ma ad assimilarla interpretandola in modo attivo e creativo e radicandola nel suo pubblico, fino a realizzare un’adesione spontanea, a stimolare curiosità autentica e interesse profondo.


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Se si vuole sviluppare un’efficace politica delle eccellenze e valorizzare adeguatamente gli studenti migliori è a questo nostro grande patrimonio che bisogna fare riferimento, a cominciare dalla celebre conferenza del 1708 di Giambattista Vico sul metodo degli studi del nostro tempo, che esortava a preoccuparsi di formare la sensibilità, l’immaginazione, i sentimenti dei giovani, che non sono contenuti che si trasmettono, ma propensioni e disposizioni che si devono sollecitare e attivare.

Come sottolineava infatti Giovanni Vailati recensendo e riprendendo l’opera di C. Laisant La mathématique: philosophie, enseignement (Carré et Naud, Paris, 1898), è deplorevole “che, anche per la Matematica (il che è tutto dire), la scuola continui malgrado tutto a essere piuttosto una palestra mnemonica che non un istituto di cultura intellettuale, che l’allievo sia ivi occupato troppo a imparare (apprendere, accipere) e troppo poco a capire (comprendere, concipere), che lo scolaro insomma venga considerato più come un recipiente da riempire che non come un campo da seminare, una pianta da coltivare, un fuoco da eccitare”.


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