Non appena nell’universo scolastico si nomini la parola «eccellenza» scatta nell’inconscio del Paese l’allarme rosso. Occorre invertire la tendenza. Il commento di GIOVANNI COMINELLI
Non appena, nell’universo scolastico, si nomini la parola “eccellenza” scatta nell’inconscio collettivo del Paese l’allarme rosso: “eccellenza” viene associato a “selezione”, a “competizione”, a “privilegio economico-sociale”. Preoccuparsi dei più bravi è considerato “politically incorrect”. Giacché è “dagli ultimi” che bisogna partire! D’altronde, lo sfondo culturale dal quale insorge la questione dell’eccellenza sia per apprezzarla sia per contestarla appare a sua volta confuso e infestato di pregiudizi. Perciò è utile tornare ai fondamenti concettuali della questione, a costo di qualche apparente pedanteria.
L’idea che gli uomini nascano uguali davanti allo Stato è stata è ed è un’idea motrice della civiltà europea. Essa è la figlia laica dell’idea cristiana che l’ha preceduta: che tutti sono figli di Dio e perciò uguali. La rivoluzione americana e quella francese hanno tratto le ultime laiche conseguenze: tutti gli uomini sono liberi, perciò sono uguali, perciò sono fratelli. Pertanto a quel grande apparato ideologico di Stato, che è la scuola, fu assegnato il compito di realizzare quei tre valori nel proprio ambito: l’Enciclopedia del sapere avrebbe reso liberi gli uomini, dunque uguali, dunque fratelli. Su quell’impianto ideologico sono stati costruiti enormi apparati di istruzione/educazione. La disuguaglianza è solo un incidente di percorso, un accidente casuale, che l’apparato educativo statale toglierà di torno, qualora si rispettino i programmi e le procedure.
Inutile aggiungere che questo ottimismo conviveva contraddittoriamente giustapposto alla tranquilla accettazione del fatto che solo i figli delle classi economicamente e culturalmente privilegiate potessero accedere ai gradi più alti dell’istruzione. La scuola si annunciava formalmente accessibile a tutti, di fatto era per pochi. Contro questo liberalismo duro insorsero i movimenti popolari socialisti e cattolici dell’800, rivendicando il valore dell’eguaglianza come centrale, anche nelle scuole. Da questa tradizione si guardò con sospetto al tema delle eccellenze, perché inevitabilmente e non senza ragione era associato a selezione di classe, a privilegio.
Alla fine sono ancora le tre grandi costellazioni del liberalismo, del cattolicesimo politico e del marxismo, almeno nel nostro Paese, a definire il quadro culturale e psicologico della questione. Finché si rimarrà dentro questa dialettica la questione non sarà neppure affrontata. E infatti non lo è, salvo che da piccole enclaves. Intanto, come documenta l’ultimo Rapporto Ocse, il nostro Paese, la cui leadership politico-intellettuale ha sempre fatto la retorica dell’eguaglianza, si trova ai livelli più alti di varianza e di distacco tra i primi e gli ultimi: è un’Italia piena di divides.
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Occorre adottare un altro paradigma: un episodio della vita di Don Bosco può aiutare a spiegarlo. Una mattina, mentre si accingeva a vestire i paramenti sacri per dire Messa, si trovò davanti uno di quei ragazzi di strada – quali ne sottoproduceva in quegli anni della seconda metà dell’800 a Torino una società in via di industrializzazione feroce – forse entrato in sacrestia per rubare. Mentre il sacrestano lo stava scacciando a male parole, don Bosco lo trattenne e gli chiese che cosa sapesse fare. La prima risposta impertinente e disperata fu: “nulla!”. Ma di fronte alle insistenze di Don Bosco il ragazzo si lasciò andare: “So fischiare!”.
Don Bosco valorizzò quella risposta. Egli era riuscito a individuare in quel ragazzo destinato a diventare sottoproletario o delinquente il suo “talento”. Ecco il nuovo (?) paradigma: ciascun ragazzo dispone di uno o più talenti. Ciascun ragazzo è diverso. Non siamo eguali, siamo diseguali: ciascuno con i propri talenti. Verrebbe voglia di dire: ciascun ragazzo è eccellente! Occorre un sistema educativo che permetta di farli emergere, di farli dissotterrare, di moltiplicarli. Che costruisca con ciascuno – famiglia-ragazzo – un progetto per ciascuno.
Si chiama “personalizzazione”. Diversamente dall’individualizzazione – che ha una lunga storia pedagogico-didattica – per la quale tutti debbono raggiungere lo stesso traguardo, salvo che ciascuno ci dovrebbe arrivare per una via individuale diversa, la personalizzazione si confronta con il mondo “là fuori”, che è reale vincolo per tutti, secondo i propri tempi, la propria libertà e responsabilità. Compito della scuola non è selezionare o bocciare, premiare o punire. Essa deve solo far crescere in ogni ragazzo l’intelligenza del mondo. Difficile, anzi impossibile realizzarlo dentro un sistema centralizzato-burocratico di massa, nel quale i ragazzi sono costretti in classi di età/classi ordinamentali, dentro le quali inevitabilmente si traccia una campana di Gauss, sotto la quale si istituiscono una posizione mediana più o meno lunga e estremi corti e reciprocamente distanti.
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Il primo presupposto della personalizzazione è la conoscenza del ragazzo. Nel sistema attuale, che abbiamo ereditato dall’800, il ragazzo è “una scatola nera”, la cui conoscenza diviene possibile sempre troppo tardi, dopo la catastrofe. Nel sistema attuale italiano l’istituto della tutorship e del portfolio, introdotti dalla Moratti, sono stati bloccati dai sindacati e da Fioroni. In filigrana vi si legge un’alleanza tra l’egualitarismo cattolico e quello di sinistra. Gli insegnanti procedono come “solisti”, ma il lavoro di équipe risulta difficile anche per i volenterosi, data la rigidità dell’organizzazione del lavoro e l’inadeguatezza degli spazi.
O ci si muove verso la nuova frontiera della personalizzazione oppure non basterà qualche piccola misura a favore delle eccellenze, che per una serie fortunata di circostanze, riescono, nonostante tutto, a emergere. Anche quelle che non emergono sono delle eccellenze! Solo che il sistema statale-centralistico funziona come una grande macchina dissipativa dell’intelligenza dei ragazzi e della professionalità dei docenti. Che dire del 20% che dis-perdiamo ogni anno? Lì non ci sono talenti? Certo che sì! Ma li abbiamo persi per sempre.
Conclusione: avanti con la politica delle eccellenze, purché si comprenda che essa è solo una forma parziale e un anticipo di una politica della personalizzazione. Se non è questo, ciò che si deve paventare non è il ritorno ad una ottocentesca selezione di classe nella scuola, ma il fallimento puro e semplice anche di questa modesta misura.