Ieri 10 gennaio, il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha incontrato presso il Palazzo del Quirinale il Consiglio Nazionale degli Studenti Universitari (CNSU). Il presidente del CNSU, Mattia Sogaro, iscritto al III anno di Giurisprudenza, ha pronunciato il seguente discorso:
Illustrissimo Signor Presidente,
a nome di tutto il Consiglio Nazionale degli Studenti Universitari, La ringrazio vivamente per avere risposto alla nostra richiesta.
Come Lei sa il CNSU rappresenta democraticamente tutti gli studenti universitari italiani, compresi i dottorandi di ricerca e gli studenti delle scuole di specializzazione, ed è composto da trenta membri, appartenenti sia a diverse parti politiche sia a realtà di base presenti nelle nostre università, che non hanno alcuna veste partitica. Alle ultime elezioni dello scorso maggio hanno partecipato oltre duecentomila studenti: in un momento di crisi della politica e di allontanamento dei giovani da essa – come Lei ha ricordato nel Suo discorso di fine anno – ci sembra si tratti di una forma di partecipazione alla vita democratica e istituzionale altamente significativa. Con il loro voto queste decine di migliaia di studenti ci hanno chiesto di farci portavoce delle istanze, dei problemi e delle difficoltà che incontriamo durante gli anni universitari, esprimendo il desiderio di essere protagonisti, insieme con noi, nella costruzione dell’università.
Il CNSU non ha poteri decisionali, ma solo consultivi e di proposta al Ministro dell’università. Nel corso di questi primi mesi, abbiamo già avuto modo di formulare alcuni pareri su diversi decreti ministeriali, cercando di fornire un apporto critico e il più possibile equilibrato alle decisioni del Ministro, alla luce della nostra esperienza in università.
L’incontro di oggi ci permette di esporre anche a Lei alcuni spunti di riflessione che, come studenti, ci stanno particolarmente a cuore, considerata anche l’attuale circostanza storica che vede il mondo universitario al centro dell’attenzione pubblica e all’inizio di un importante processo riformatore.
Negli ultimi mesi l’università è diventata terreno di uno scontro ideologico e di una resa dei conti politica che vanno ben oltre i problemi che la riguardano. Ad alimentare tutto ciò hanno contribuito tanti organi di stampa e molte televisioni, che, in un calibrato gioco mediatico, hanno cercato di accreditare come rappresentativi dell’intero mondo dell’associazionismo studentesco unicamente quei gruppi, peraltro ben circoscritti, che utilizzano determinate modalità di protesta. È in questo clima che si sono verificati anche episodi di grave e inaccettabile violenza (tentazione sempre “fuorviante e perdente”, come Lei stesso l’ha definita nel suo messaggio di fine anno alla Nazione), che hanno finito per distogliere ulteriormente l’attenzione dai veri problemi.
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Vogliamo cogliere questa occasione per farLe sapere che nelle università italiane ci sono migliaia di giovani seriamente impegnati con il proprio studio, con i problemi dell’università e con la propria vita, che, anche in questo momento di particolare difficoltà dal punto di vista economico, sociale e politico, non cedono alla tentazione del lamento o della recriminazione, rifiutano di imboccare il vicolo cieco della protesta violenta e tentano di contribuire costruttivamente al bene dell’Università e dell’intero Paese.
Venendo ora al testo della riforma appena approvata (un testo scritto a più mani, anche da esponenti del mondo accademico e politico del PD e di Confindustria), ritengo, come ho avuto modo di dire in più occasioni, che una riforma sia oggi meglio di una non riforma: il nostro sistema universitario necessita infatti di essere rilanciato e rinnovato. L’attuale Ministro si è fatto coraggiosamente carico di questa necessità, sebbene l’approccio ai problemi della nostra accademia sia stato viziato da una lettura parziale della situazione e da una politica economica largamente inadeguata.
L’università italiana non è come l’hanno raccontata dalle colonne dei giornali alcuni professori e tanti panflettisti negli ultimi due anni, cioè un covo di baroni e fannulloni, un luogo di privilegi, di inefficienze e di sprechi. È comodo e strumentale fare di ogni erba un fascio, ignorando le molte e notevoli differenze tra le situazioni esistenti, per poter poi praticare, col plauso dell’opinione pubblica, un drastico e indifferenziato taglio di risorse. Quando ci rechiamo in altri Paesi, con i programmi di scambio o di studio all’estero, il livello di preparazione offerto dall’università italiana si dimostra mediamente assai superiore a quello che i nostri coetanei ricevono nei loro Paesi. Questo dato d’esperienza è confermato dalle classifiche internazionali (assai spesso citate a sproposito): se è vero infatti che gli atenei italiani sono lontani dalle prime posizioni è altrettanto vero che molti di essi sono presenti tra le prime 4-500 del mondo. Il che significa, in sintesi, che il livello medio dell’Università italiana è alto e compete con i sistemi universitari dei Paesi con i quali siamo soliti confrontarci.
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1. Riforma e risorse. Negli ultimi mesi, in occasioni pubbliche, abbiamo ripetutamente chiesto a chi ha le responsabilità di governo di dichiarare se considera l’università una risorsa su cui investire o solo un problema da risolvere.
La riforma non ha fornito una risposta chiara a questa domanda. Non soltanto perché, di fatto, il Governo è venuto meno all’impegno di stanziare risorse in cambio dell’approvazione delle riforme (tutti sanno che il recente stanziamento di 800 milioni di euro non fa che recuperare una parte del taglio di 1,2 miliardi precedentemente disposto dal ministero dell’economia con la legge n. 133/2008 ed è appena sufficiente per la sopravvivenza delle università). Leggendo il testo della legge ritorna quasi ossessivamente la formula “senza nuovi o maggiori oneri” per lo Stato. Ora, non v’è dubbio che le risorse pubbliche vadano salvaguardate, tanto più nel momento presente, e che occorra sanare le situazioni di spreco o di cattiva gestione che sono state individuate. Ma almeno altrettanto importante è avere il coraggio di scelte lungimiranti, capaci di guardare con intelligenza al futuro, anche se questo può risultare politicamente poco remunerativo nel breve periodo.
In questo senso mi pare di poter interpretare anche il Suo invito nel discorso di fine anno a compiere «scelte significative, anche se difficili» e a «fare salve risorse adeguate per l’università». La spesa pubblica per istruzione e ricerca, infatti, non può essere oggetto di tagli lineari come una qualsiasi altra voce del bilancio dello Stato. Anche l’agricoltore che pota i suoi alberi sa che potare non significa indiscriminatamente tagliare (importano il dove e il come). È sintomo di miopia grave trattare la scuola, l’università e la cultura come un lusso cui si può rinunciare. Tanto più in un Paese come l’Italia che della cultura è stata per secoli patria. Senza risorse adeguate viene meno la possibilità stessa dello sviluppo umano e culturale, e quindi economico di un Paese. Lo hanno capito i governi di Francia e Germania che, proprio in un periodo di crisi globale, hanno significativamente aumentato lo stanziamento per l’università e la ricerca. E noi, Signor Presidente?
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2. Autonomia vs. centralismo. La mancanza di risorse adeguate, da accompagnare ad un processo riformatore che vorrebbe essere radicale, non è purtroppo l’unica contraddizione presente nel testo della legge. Permangono altre ambiguità di fondo, con il rischio che i sacrosanti principi ispiratori della riforma (autonomia, responsabilità, merito) rimangano solo sulla carta o vengano di fatto traditi.
Qui è il punto: occorrerà lavorare duramente nel prossimo futuro per far sì che i numerosissimi decreti attuativi (decreti legislativi, regolamenti, decreti ministeriali) vadano nella direzione di un vero rilancio dell’università e non invece in quella della moltiplicazione di una burocrazia soffocante di stampo fortemente statalista.
Che il rischio di un ritorno al centralismo statale sia effettivo è confermato proprio dalla quantità di decreti attuativi di secondo grado – che il Presidente della CRUI stima saranno almeno quaranta – che occorreranno per dare attuazione al dettato legislativo. Già solo questo dispiegamento di fonti secondarie appare in contrasto con l’autonomia universitaria tutelata mediante riserva di legge dall’art. 33 della Costituzione.
Inoltre, la pesante burocrazia ministeriale potrebbe addirittura finire per stringere le università in una morsa fatale se, come tutto al momento lascia presagire, il ministero si confermerà incapace di esercitare i nuovi e rilevanti poteri di indirizzo, controllo e valutazione che la legge, anche attraverso l’ausilio dell’ANVUR, gli riconosce. Non si tratta di iperboli, signor Presidente. Già oggi, a legislazione vigente, è possibile rendersi conto dell’inadeguatezza del ministero a svolgere in maniera efficace il compito di governare a distanza il sistema universitario. Per fare alcuni esempi recentissimi, si pensi al decreto ministeriale che stabilisce i criteri di riparto del Fondo di finanziamento ordinario del 2010 (si badi, del 2010, non del 2011) che porta la data del 21 dicembre scorso: in poche parole, è stato licenziato con un anno di ritardo, a esercizio finanziario praticamente chiuso. Oppure, si pensi al decreto relativo alle linee generali di indirizzo della programmazione delle università per il triennio 2010-2012, che non è ancora stato emanato. Se il ministero già oggi fatica a svolgere i propri compiti come farà domani a esercitare le numerose nuove funzioni che la legge di riforma gli attribuisce?
Da una parte il trasferimento all’ANVUR di fondamentali responsabilità di valutazioni e scelte tecnico-professionali costituisce una indiretta ammissione dell’inidoneità dell’apparato burocratico ministeriale a gestire processi che sono sempre più complessi e articolati; ma dall’altra esso rappresenta solo un primo e ancora incerto passo per uscire dal tunnel. Occorrerà per questo mettere al più presto l’Agenzia nelle condizioni (anche finanziarie) di poter funzionare al meglio (le premesse purtroppo non sono delle migliori, dal momento che è dal 2006 che l’ANVUR è in fieri). Sarà soprattutto dalla capacità di rendere operativo e funzionale questo strumento che si potrà verificare la serietà delle intenzioni riformatrici.
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3. Semplificazione amministrativa e governance. Altra questione decisiva nel dare applicazione alla riforma è quella della semplificazione dei procedimenti, a livello sia centrale sia locale. In questo senso, sebbene i presupposti siano preoccupanti (il gran numero e la complessità dei provvedimenti applicativi cui la riforma rimanda rischia di ingessare ancora di più tutto il sistema universitario, rendendo pesanti e difficoltose anche le procedure in apparenza più semplici), vi sono nel testo alcuni spiragli che occorre sfruttare: penso ad esempio alla delega per l’introduzione di un nuovo sistema di contabilità delle università che dovrebbe essere utilizzato per semplificare e rendere trasparenti le regole dell’agire amministrativo e contabile dei nostri atenei. Molte difficoltà nascono precisamente dalla farraginosità e insensatezza di certe procedure che scoraggiano e mortificano proprio chi ha più intraprendenza e iniziativa.
Nella direzione della semplificazione ci sembra condivisibile il tentativo di riformare la governance delle singole università (art. 2), anche se alcune misure sono state caricate, in un senso o nell’altro, di un significato improprio. Mi riferisco all’ingresso degli “esterni” nei consigli di amministrazione degli atenei. Una previsione normativa che, sganciata dall’obbligo per questi soggetti di partecipare in qualche modo al finanziamento ordinario delle università, costituisce una misura sostanzialmente inutile e forse dannosa. Nell’esperienza passata, la presenza di soggetti esterni nei consigli di amministrazione degli atenei non ha portato alcun significativo cambiamento in meglio. Beninteso: il problema non è, come sbandierato da alcuni, il fantasma della privatizzazione delle università, quanto l’assoluta mancanza di realismo di una norma di tal genere. Soprattutto perché con essa si attribuiscono rilevanti poteri a soggetti che – non si sa bene a che titolo – dovrebbero operare scelte fondamentali nella vita degli atenei.
Sempre in tema di governance ritengo, per le ragioni dette prima, che si sia persa l’occasione di mettere mano al sistema della governance centrale, rappresentato dall’apparato ministeriale. Perché nascondersi che inefficienza e inadeguatezza riguardano innanzitutto il “centro” prima ancora che la “periferia”?
4. Uniformità vs differenziazione. L’inidoneità dell’apparato centrale a governare a distanza un mondo universitario come quello italiano si riflette anche nell’elevato tasso di uniformità giuridica, organizzativa, scientifica e didattica che caratterizza il nostro sistema accademico. Eppure, chiunque conosca minimamente la realtà universitaria italiana sa benissimo che vi sono in essa differenze enormi: vi sono università generaliste e università a vocazione specialistica; università essenzialmente legate al territorio in cui operano e università che potrebbero competere ai vertici delle classifiche internazionali; università che svolgono per lo più ricerca di base e altre che si occupano maggiormente della ricerca applicata, ecc. Dal punto di vista della popolazione studentesca più del 55% delle università italiane ha meno di 20.000 studenti e solo sei università hanno più di 60.000 studenti: La Sapienza di Roma conta circa 130.000 iscritti e quella del Molise non arriva a 10.000. Queste macroscopiche differenze non solo non possono essere ignorate, ma devono essere il più possibile positivamente riconosciute e valorizzate, fuggendo la tentazione di ottenere a tutti i costi un’uniformità istituzionale, organizzativa, finanziaria e didattica. Porre in essere strumenti di differenziazione, valorizzando le capacità e le risorse di ciascuno dovrebbe essere un primo modo per innescare quel circolo virtuoso da tante parti invocato. Vi potranno così essere dipartimenti che avranno come mission di perseguire l’eccellenza della ricerca e dell’insegnamento, altri che privilegeranno la ricerca applicata e le funzioni di impresa, università che vorranno misurarsi e competere a livello globale per conquistare i primi posti nei ranking internazionali e altre più strettamente legate al territorio. Ciascuno dovrà essere valutato sul terreno sul quale ha scelto di misurarsi.
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Anche qui la riforma, sebbene ancora improntata ad una logica uniformante – che trova le sue radici nella legge Casati del 1859 – lascia aperti alcuni varchi, ad esempio prevedendo che talune università possano sperimentare propri modelli funzionali e organizzativi, diversi da quelli stabiliti in via generale dalla legge (art. 2), o anche laddove prevede meccanismi di accreditamento delle sedi e dei corsi di studio e l’introduzione di un sistema di valutazione periodica dei risultati conseguiti nella didattica e nella ricerca (art. 5, comma 3 lett. a e b). Si tratta di strumenti che possono essere utilizzati per realizzare una differenziazione che si presenta sempre più necessaria. È una strada da percorrere, ma a tale scopo (soprattutto per quanto riguarda la sperimentazione di nuovi modelli organizzativi) occorre che il ministero provveda al più presto a definire i criteri per l’ammissione alla sperimentazione, scongiurando così il rischio – già verificatosi in passato, ad esempio nel caso dell’art. 16 del d.l. 112/2008 – che questa norma sia stata scritta per non essere mai applicata.
5. Il merito e il diritto allo studio. Un altro tema imprescindibile è quello della valorizzazione del merito. Nella legge i riferimenti all’attuazione della meritocrazia sono presenti sia nei principi ispiratori sia in diverse disposizioni specifiche. Come studenti siamo particolarmente interessati alla creazione di un apposito fondo (di cui all’art. 4), chiamato appunto fondo per il merito, destinato a finanziare premi e buoni di studio. In particolare, per quanto riguarda il suddetto fondo, ci sembra del tutto condivisibile la creazione di un ulteriore strumento a garanzia degli studenti meritevoli, accanto a quelli già previsti dalla (ormai obsoleta) normativa vigente. D’altro canto, suscita perplessità il totale disimpegno dello Stato nel contribuire al finanziamento del fondo, che viene lasciato sostanzialmente alla buona volontà di finanziatori privati attraverso “versamenti a titolo spontaneo e solidali” (art. 4 co. 7 lett. a) ed a “trasferimenti pubblici previsti da specifiche disposizioni” che, come tali, rimangono “futuri” ed incerti. Il rischio che questo fondo resti una buona intenzione è molto concreto.
La legge contiene anche un’importante delega al Governo per una riforma complessiva della normativa sul Diritto allo Studio Universitario (art. 5, c.1 lett. d). È questo un altro aspetto che pesantemente incide sulla vita di tanti studenti universitari, capaci e meritevoli anche se privi di mezzi. Chiediamo di essere coinvolti attivamente nella fase di decretazione legislativa che si aprirà nei prossimi mesi, portando il nostro contributo in qualità di primi destinatari delle normativa in oggetto. Intendiamo, su questo tema, proporre strumenti ulteriori rispetto alle classiche borse di studio e, soprattutto, contribuire alla definizione dei Livelli Essenziali delle Prestazioni (LEP) attraverso l’introduzione di indicatori e criteri per quantificare i costi reali che uno studente deve affrontare, soprattutto se fuori sede. Come CNSU siamo pronti a fare la nostra parte nella definizione di tutta la normativa di dettaglio che questa riforma richiede, in un’ottica di serio confronto e in vista di scelte il più possibile condivise.
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6. Ordini del giorno: precari e internazionalizzazione. Vorrei infine sottolineare la necessità, come anche Lei ha avuto modo di fare nel comunicato di promulgazione della legge di riforma, di dare seguito agli impegni presi da parte del Governo con l’approvazione di numerosi ordini del giorno, sia alla Camera sia al Senato: molti di essi possono contribuire ad un miglioramento sostanziale della riforma e ad una sua corretta applicazione, limitando le contraddizioni che ho cercato prima sinteticamente di evidenziare. In particolare condivido la preoccupazione espressa negli ordini del giorno dei senatori Valditara e Rusconi che una cattiva applicazione delle disposizioni sui nuovi ricercatori a tempo determinato possa, di fatto, incrementare illusorie speranze per la nostra generazione. A dispetto delle dichiarazioni di principio, inoltre, il nuovo meccanismo dei ricercatori a tempo determinato – non in sé, ma per come è congegnato – autorizza la possibilità di essere “precari stipendiati” in università fino quasi a quarant’anni d’età (dopo il dottorato – che si può ragionevolmente conseguire entro i 26-27 anni – è possibile, infatti, che i rapporti instaurati con i titolari di assegni di ricerca e di contratti da ricercatore a tempo determinato durino fino a 12 anni: art. 22, comma 9).
Conclusione. Illustrissimo Signor Presidente, nel suo discorso di fine anno, Lei ha rivolto a noi giovani queste parole: “invito ogni ragazza e ragazzo delle nostre Università a impegnarsi fino in fondo, a compiere ogni sforzo per massimizzare il valore della propria esperienza di studio, e li invito a rendersi protagonisti, con spirito critico e seria capacità propositiva, dell’indispensabile rinnovamento dell’istituzione Università e del suo concreto modo di funzionare”.
Nelle nostre università ci sono tanti giovani protagonisti che instancabilmente tentano di costruire qualcosa per sé e per l’ambiente in cui vivono. Non basta, infatti, una riforma, bella o brutta che sia. Per rendere più umano e funzionale questo luogo occorre una presenza critica e costruttiva che si impegni con passione in ogni aspetto della vita universitaria: dallo studio alla partecipazione attiva alla didattica e alla rappresentanza negli organi accademici, dall’organizzazione di iniziative culturali alla creazione di cooperative di servizio agli studenti. Nelle nostre università questa presenza c’è, basta andare a vedere, invece che accontentarsi della “realtà virtuale” fornita dai mezzi di comunicazione. Da questa presenza occorre secondo noi ripartire.
Un sentito grazie per il suo impegno costante e la sua attenta disponibilità.
Mattia Sogaro