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Home » Educazione » Università » SEMPLIFICAZIONI/ 2. Università, Violini: bene Monti, ma il valore legale va abolito

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SEMPLIFICAZIONI/ 2. Università, Violini: bene Monti, ma il valore legale va abolito

Int. Lorenza Violini
Pubblicato 28 Gennaio 2012
profumo_governo_ppianoR400

Il ministro dell'Istruzione Francesco Profumo (InfoPhoto)

Il governo fa dietrofront sul valore legale del titolo di studio. Mancanza di coraggio, o dovuta prudenza? Per LORENZA VIOLINI, Monti ha fatto bene, a patto di non fermarsi qui

Il governo fa dietrofront sul valore legale del titolo di studio. A una settimana di distanza dal pacchetto di provvedimenti centrato sulle liberalizzazioni, oggi l’esecutivo ha semplificato norme e procedure. Le maggiori attese erano concentrate sul titolo di studio, il cui «valore legale» uniforma senza distinzioni il «pezzo di carta» agognato da chi si imbarca nell’avventura universitaria. In parole povere: la laurea conseguita nel migliore ateneo del Paese ha lo stesso «valore» di quella ottenuta nell’ultimo ateneo di provincia.
Che una battaglia sul valore legale del titolo fosse molto pericolosa, dev’essersene accorto anche Mario Monti. «Il tema del valore legale è troppo complesso e non lo affrontiamo» ha detto il capo del governo al termine del Consiglio dei ministri, aggiungendo: «ci siamo accostati a questo tema con animo sgombro da pregiudizi ideologici con l’orientamento a superare, almeno da parte mia, il simbolismo del valore legale e per questa ragione abbiamo deciso di non affrontarlo in questo dl». Sul tema si aprirà però «una consultazione pubblica». Prudenza, dunque. Così, accanto a provvedimenti miranti alla semplificazione, come il Portale unico delle università, l’uguaglianza del titolo rimane un totem. «È una scelta prudente che si può capire» dice a IlSussidiario.net Lorenza Violini, docente di diritto costituzionale nell’Università statale di Milano. «Il governo aveva davanti due strade».


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Quali?

Riorganizzare tutto il sistema universitario – percorrere cioè la strada che si è intrapresa – oppure, in modo meno razionale, abolire il valore legale del titolo lasciando tutto com’è. In altri termini,  gettare un enorme masso nello stagno e poi ripensare tutto in funzione di quello. Quest’ultima sarebbe la via più breve, ma anche la più destabilizzante.


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È prevalsa la prudenza. Lei che ne pensa?

L’abolizione del valore legale del titolo di studio è davvero un problema complesso. Riformare l’università italiana partendo dal titolo vuol dire ristrutturare la casa cominciando dal tetto. Invece, se si pensa ad un processo di riorganizzazione di tutto il sistema universitario basato sull’accreditamento delle sedi, sulla valutazione delle performances, sulla valutazione della didattica, l’abolizione del valore legale è il coronamento di una riforma sistemica. Naturalmente speriamo che avvenga proprio questo.

Nell’attuale assetto, invece?


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Siamo oggi di fronte ad un sistema universitario che fino ad ora, a parte qualche timido approccio, ha ragionato partendo dal valore legale, sulla base cioè dell’esigenza di garantire con esso l’uniformità dei titoli rilasciati. L’intero sistema è coerente con questo impianto: centralizzazione dei finanziamenti, ridistribuzione in modo uniforme – sia pure a seconda delle dimensioni dell’ateneo –, definizione rigida dei percorsi di studio. Il valore legale del titolo di studio è il portato più coerente del centralismo. Il tema del valore legale, in altre parole, è connesso alla sostanza della regolamentazione universitaria. Ecco perché abolirlo in un momento di transizione del sistema universitario può essere imprudente.

Monti ha dichiarato di voler aprire una «consultazione pubblica». Condivide? 

Senz’altro. Che non si riduca però al «sì» o «no». Da parte mia auspicherei un «sì» – lasciando alla società civile, al mercato, la definizione del valore reale e non meramente legale, dei titoli rilasciati dall’università. Un «sì», parlando però, innanzitutto, del «come».

Un errore da evitare?

Lasciare tutto come è ora e togliere il valore legale. Le famiglie italiane hanno mandato i figli all’università col mito del posto fisso, ora togliamo loro il posto fisso ma il sistema rimane quello di cinquant’anni fa: risulterebbe demagogico. Ripeto, si può certo partire dal fondo, non è che i processi di riforma debbano essere sempre «razionali». Ma non sarebbe, allo stato, la scelta più logica e sensata.

In conferenza stampa il ministro Profumo ha ricordato il decreto sull’accreditamento delle università approvato la settimana scorsa: ora spetta all’Anvur accreditare gli atenei.

Quel decreto è un primo passo per arrivare ad una competizione reale tra le sedi universitarie: se si conosce il valore formativo reale delle singole sedi e anche gli effetti sull’occupazione di certe lauree piuttosto che di altre, vuol dire che il processo di conoscibilità del sistema viene organizzato finalmente su base valutativa e non su base legale. Occorre però andare oltre, intervenendo sui processi di reclutamento, che andrebbero ulteriormente liberalizzati. Ora sono nelle mani delle università, ma troppo condizionati dal controllo centralizzato sui concorsi. Se le università non possono assumere docenti perché sul mercato, in assenza di concorsi appunto, non ce ne sono, tutto il sistema di valutazione risulta compromesso: come faccio a valutare la performance di un ente che non è libero si stabilire come organizzarsi, cioè come scegliere il suo capitale umano?


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