SCUOLA/ Chi ha eliminato la ragione del cuore?
Per uscire dalla crisi l’educazione deve ritrovare la ragione integrale. Attualmente ne è agli antipodi. Parla MANUELA CERVI, autrice de La ragione del cuore. Antropologia delle emozioni

Perché un bambino contento impara di più? In questa domanda, e ancor più nella risposta, si nasconde una visione dell’uomo che il razionalismo e il sentimentalismo che abitualmente respiriamo, nella scuola e fuori, hanno censurato. Non solo; vi si cela anche il pesante bilancio di una scuola che crede di educare, quando in largissima parte si limita ad istruire. Le due cose, infatti, sono profondamente diverse. È una ragione integrale che manca, oggi, nell’educazione. A fare difetto – però – non è un algoritmo razionale, o il guizzo del genio, ma la ragione emotiva. Se le emozioni non sono infatti comprese nella loro vera natura ed educate, impazziscono, e quel che rimane è una razionalità monca. Davvero, allora, per salvare la scuola occorre un ampio giro, più lungo di quanto normalmente si pensi. È il tema affrontato da Manuela Cervi ne La ragione del cuore. Antropologia delle emozioni (Cantagalli), da poco in libreria. IlSussidiario.net ne ha parlato con l’autrice.
Nel suo lavoro lei studia, riabilitandola, la ragione emotiva. Innanzitutto ci spieghi come queste due parole possono stare insieme.
Che cos’è un’emozione?
Lei scrive: «gli istinti appartengono già alla dinamica emotiva umana; neppure per loro vale il rigido determinismo (stimolo-risposta) del solo livello organico. (…) L’errore consiste nell’interpretare l’istinto umano come biologico, quand’esso è invece al livello biologico di una struttura antropologica, che va molto al di là di esso». Può spiegare?
Cioè il livello antropologico.
Sì. È quest’ultimo livello, quello – appunto – antropologico, che in-forma di sé i livelli precedenti (che io ho individuato essere tre: organico, individuale e soggettivo), che lo preparano ma dai quali si differenzia sostanzialmente, rendendoci persone uniche e irripetibili. Non più organismi, individui e soggetti, ma persone capaci di conoscere, di creare, di ammirare, di amare, di distinguere il bene dal male e di scegliere il bene in luogo del male.
Eppure, mai come oggi le emozioni hanno diritto di cittadinanza in particolare tra i giovani e giovanissimi. Ma allora dove sta il problema?
Sta usando espressioni molto forti.
In un’accezione generale il sentimentalismo è una malattia della ragione, che dopo aver separato il sentire dal capire, invece di assolutizzare la mente (razionalismo), assolutizza il corpo e il suo sentire (sentimentalismo). In un’accezione particolare il sentimentalismo è una malattia del percorso conoscitivo bloccato al parametro valutativo, che ho definito dell’alleanza: “Mi ama o non mi ama!”, come quando si sfoglia una margherita.
Torniamo alla ragione. Pare che lei stia quasi difendendo il primato della «ragione emotiva» sulla razionalità. Ma che cosa può mai essere la prima senza la seconda?
Lei riporta una frase di Leonardo da Vinci dagli Aforismi: «Ogni nostra cognizione prencipia da sentimenti». In altri termini, Come avviene in noi la scoperta della realtà?
«Osservare non basta – obiettava Paul Cézanne agli impressionisti –, bisogna anche pensare». Come aveva capito il pittore francese contrapponendo il modellare al modulare, una volta che si è osservato il dato non si è ancora stabilita con esso una relazione. Allora è necessaria una diversa modalità operativa della ragione, che stabilisca proprio questa relazione col dato. E questa è esattamente la funzione della ragione emotiva. Infatti per conoscere occorre essere interessati alla realtà, essere curiosi, appassionati, attratti, desiderosi; occorre avere l’ardore di Ulisse; occorre avere il gusto delle cose, sentirne il sapore. «Chi ha raggiunto lo stato di non meravigliarsi più di nulla dimostra semplicemente di aver perduto l’arte del ragionare e del riflettere» diceva Max Planck. Per conoscere occorrono la fiducia e la speranza che il mondo sia conoscibile.
Per conoscere, dunque, occorre aprirsi alla realtà con simpatia…
O con empatia, come diceva Edith Stein, o con amicizia, come diceva Agostino («Nihil nisi per amicitiam cognoscitur»), o con l’eros, che con il proprio calore scioglie l’immobilità della razionalità verso ciò che è autentico e vero, come scriveva Pavel Florenskij ai propri figli. Occorre amare il reale, come dice Jean Luc Marion. Occorre gratitudine, come riconosceva il premio Nobel per l’economia John Nash. Occorre entusiasmo, come scriveva Eugen Fink. Da Eschilo a Mounier occorre soffrire. La ragione emotiva è una capacità di giudizio lungo tutta la traiettoria vitale ed esistenziale, costituita dall’alternativa tra due possibili valutazioni opposte e inconciliabili, che non lasciano spazio a opzioni terze: un costante out-out, un sì o un no di fronte al reale. Qui il pensiero cresce, perché è vivo, vitale e immediato, in relazione con una realtà viva. Qui la ragione si allarga, perché l’affettività la investe: «Dietro il pensiero c’è tutto l’insieme delle inclinazioni affettive e volitive» scriveva Lev Vygotskij.
Dunque, l’emotività, che ha un radicamento biologico, giocherebbe un ruolo fino alla più alta sfera spirituale, estendendosi a tutto lo spettro del nostro paragone con la realtà, culminante in ciò che lei chiama ragione segnica. Può spiegare?
Chi ha separato il sentire dalla sua capacità valutativa?
Ogni razionalismo di vecchia o di nuova data. E ogni razionalismo si fonda sul dualismo, comunque lo si voglia interpretare. Separa il sentire dall’intelligĕre chiunque viva in sé una disunità, una disorganicità, una schizofrenia.
Andiamo alle implicazioni educative del discorso fatto finora. Leggo: «la natura dell’opera educativa è visibile, più che nella pietà Vaticana, nella pietà Rondanini».
Qual è a suo modo di vedere lo stato dell’educazione oggi per come è abitualmente concepita e attuata?
Può farne un esempio più specifico?
Laddove si sottragga ragionevolezza ai bisogni dell’alunno, all’interesse e al gusto per le cose (i Programmi didattici del ’55 parlavano del «gusto di imparare»); all’ammirazione, allo stupore, alla meraviglia che la realtà desta; alla fiducia in se stessi che i ragazzi fragilissimi devono poter acquisire; alla loro sana inquietudine, alla stima che noi adulti dobbiamo loro, all’entusiasmo di fare piuttosto che alla cupezza dello sconforto, alla percezione del senso e del valore che le cose hanno, lì si insegna secondo una modalità che imbalsama la ragione fin nelle sue modalità strettamente razionali, che hanno invece bisogno di flessibilità. Infatti i ragazzi oggi tendono a essere rigidi, a non usare duttilmente la ragione, ma a proiettare sulla realtà opinioni preconfezionate assorbite acriticamente un po’ ovunque.
Quando un insegnante è anche educatore?
Le potrei dire che riesce, in un sol colpo, a fare piazza pulita di «progressisti» e «conservatori». Dica invece dove hanno ragione, nei limiti del possibile, cioè di una comprensione parziale, gli uni e gli altri.
Chiediamoci: perché un bambino contento impara di più? Perché l’essere umano è fatto per la gioia, come mise in musica Beethoven nella sua ultima sinfonia, tre anni prima di morire. La contentezza è una delle ventidue modalità con cui il nostro codice linguistico esprime la gioia. La gioia è un pezzo del bene per cui siamo fatti già a partire dal nostro livello organico (sul versante neurobiologico dell’apprendimento è stata dimostrata una maggiore trasmissione sinaptica in condizioni di gioia, e viceversa una minore trasmissione sinaptica in stati di tristezza. La trasmissione sinaptica incentiva la capacità di apprendimento). La coscienza del bene che siamo e per cui siamo fatti è «conservatrice», il tendervi è «progressista».
Il libro contiene una parte rilevante che risulta a prima vista assai singolare. È quella dedicata ad una mappatura delle emozioni o meglio alla loro «categorizzazione». Qual è il senso di questo lavoro situato in terra di confine tra filosofia, antropologia e linguistica?
Allora quali considerazioni si possono fare a proposito del lessico emotivo dell’italiano?
Le cronache scolastiche sono piene di una situazione−tipo che potremmo riassumere così: docenti demotivati incapaci di intercettare l’interesse di giovani ormai estranei al mondo degli adulti, e definiti come apatici o assorbiti in un mondo a parte. Da cui l’improponibilità e l’irrilevanza del «passato», da Omero a Ungaretti passando per Picasso. Che ne pensa?
Che insegnano in maniera razionalistica ovvero con metà della ragione. Quando io metto in campo o vedo mettere in campo la curiosità, l’interesse, l’aspettativa, la passione, il gusto, la sensibilità, la sicurezza, lo stupore, la meraviglia, la simpatia, la stima, l’entusiasmo, la gioia fino alla felicità, cioè fino alla percezione del senso delle cose, i ragazzi si riaccendono, si illuminano, e fanno con naturalezza passi da gigante ritenuti impossibili.
A conclusione del suo lavoro, a proposito della necessità di ricostruire una ragione integrale, lei riserva un posto speciale alla bellezza. Perché?
Mi sta facendo un elenco di parole!
Non è un elenco di parole ma la pesantissima eredità che gli adulti hanno consegnato loro. Rispetto a questa situazione le principali risorse educative diventano – in sintesi − la ricerca della verità come scopo del conoscere; lo sviluppo di tutte le capacità elaborative e astrattive, e in particolare della capacità di giudizio critico; l’esperienza della bellezza. Sarebbe più corretto parlare di esperienza di tutti i trascendentali (esperienza del bene, di essere amati e stimati, della verità delle cose, della giustizia, ecc.), ma alcuni di essi (come verità, giustizia, ecc.) sono stati così profondamente ideologizzati, da risultare concettualmente ambigui, mentre la bellezza possiede una concretezza irriducibile.
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