Valutare per competenze: parole che alle famiglie suonano per lo più estranee, o al più evocano un linguaggio tecnico-burocratico nel quale, a torto o a ragione, l’amministrazione scolastica è notoriamente maestra. Gli insegnanti però le conoscono molto bene, perché non basta più, nel chiuso del consiglio di classe, arrivare ad un voto per ogni disciplina. A che serve, infatti, conoscere le formule o la grammatica, se poi non si sanno risolvere «problemi» in contesti nuovi o padroneggiare la lungua a seconda delle diverse situazioni? Ecco dunque il tema delle competenze, e della loro valutazione o meglio «certificazione» finale (per il I ciclo e per il biennio del II).
Ora però potremmo essere all’ultimo atto perché, dopo un bel po’ di anni nei quali la certificazione era d’obbligo ma i modelli circolanti ad uso delle scuole – fatti di descrittori analitici che hanno suscitato tante diffidenze e grattacapi – erano per lo più guardati con il sospetto che si deve agli alieni, il ministero sta ultimando l’elaborazione di un nuovo modello nazionale, con annesse linee guida. IlSussidiario.net ne ha parlato con Carmela Palumbo, direttore generale del Miur per gli ordinamenti scolastici.
Camela Palumbo, la valutazione per competenze ha fatto versare fiumi di inchiostro. Diamo per assodato un accordo complessivo sull’importanza di questo tema per l’educazione e la didattica. Qual è oggi lo scoglio da superare per giungere a una certificazione delle competenze stesse?
Sta principalmente nel fatto che la didattica non è ancora orientata per essere poi valutata in termini di competenze. È un nodo che viene evidentemente prima della certificazione: infatti, sia la certificazione che avviene in obbligo di istruzione (biennio del II ciclo, ndr), sia quella, sulla quale stiamo ancora lavorando, che avviene nell’ambito del I ciclo non presentano grosse difficoltà, né di comprensione né di utilizzo da parte dei docenti. Il vero problema è che vanno costruite le prove di accertamento in modo che le competenze possano essere «rilevate».
Di quali prove stiamo parlando?
Per esempio le cosiddette prove esperte o di realtà: quelle che mettono i ragazzi in situazione di realtà, di risoluzione di problemi, sulla base delle conoscenze che hanno acquisito nell’ambito delle normali attività didattiche e che attengono l’utilizzo delle conocenze di diverse discipline.
Profilo in uscita e certificazione delle competenze: quale rapporto?
La certificazione delle competenze dà certamente un contributo ulteriore alla valutazione degli apprendimenti: permette di definirli meglio, di dettagliare il profilo in uscita in modo più realistico, con riferimento alle caratteristiche proprie non solo di apprendimento ma anche di comportamento in situazione degli studenti.
Cosa può dire delle scuole?
La situazione è a macchia di leopardo. Ci sono scuole che hanno lavorato in rete tra di loro e sono a un livello molto avanzato: hanno davvero adeguato la didattica anche alla possibilità di rilevare e certificare le competenze. Altre, invece, si stanno ancora interrogando sulla didattica per competenze, e devono puntare sulla «formazione» degli insegnanti.
Il lavoro sul primo ciclo è più problematico del secondo?
Certamente è più difficile, vista l’età degli studenti, andare ad osservare le competenze per quanto riguarda la scuola primaria, poichè siamo in una fase in cui esse sono ancora in fase di costruzione e di consolidamento. Da cui la necessità, quando si certificano le competenze in questa fascia, di fare qualcosa il può possibile «soft», assecondando una didattica fatta di un mix equilibrato di approcci disciplinari e metodologie. Cosa diversa, invece, al termine del I ciclo, cioè della vecchia scuola media, dove anche le prove Invalsi che fanno parte dell’esame di Stato si avvicinano sempre di più ad un modello centrato esplicitamente sulle competenze.
Che azioni può mettere in campo il Miur per dare indicazioni di merito alle scuole?
Ora stiamo lavorando soprattutto sull’elaborazione del modello nazionale per il I ciclo. Questo sarà accompagnato da linee guida che indicheranno alle scuole non solo come impiegare il modello in sé, in chiave di certificazione finale, ma come inserirlo organicamente in modo che possa essere di aiuto concreto alla didattica. Intendiamo inoltre incentivare la formazione.
A proposito di modello «nazionale». Si intende proporre uno schema unico, più rigido, o un modello plastico, da giocare nella situazione della singola scuola?
In quanto unificato, il modello dà valore alla certificazione, perché se ogni scuola adottasse un suo modello differente, tutti quanti risulterebbero «irriconoscibili» a livello di scuole superiori e verrebbe meno il requisito fondamentale di un «linguaggio» comune tra le scuole. Però il modello è organizzato in modo tale che le scuole possano davvero farlo proprio, facendo emergere, attraverso i vari campi di compliazione, le attitudini degli studenti e le competenze che hanno dimostrato nel corso degli studi.
I tempi quali sono?
Il gruppo tecnico ha lavorato bene e l’attività preparatoria è praticamente ultimata. Ora stiamo perfezionando lo strumento delle linee guida che accompagnerà la messa in campo del modello, dopo di che lo consegneremo al vertice politico del ministero, per l’adozione che dovrà avvenire con decreto ministeriale. Contiamo di poterlo adottare entro il termine di quest’anno scolastico, in modo che le scuole lo possano usare operativamente già dall’inizio del prossimo.
Chi è pronto, dunque…
Può farlo proprio già al termine di quest’anno solastico 2012.
Torniamo alla formazione degli insegnanti.
Intendiamo fare attività di formazione, perché sappiamo di chiedere una cosa molto impegnativa dal punto di vista della didattica, che richiede una profonda innovazione nel metodo e non solo nella valutazione dell’apprendimento degli studenti. Questo perché i docenti, nella loro generalità, hanno una formazione di matrice universitaria che non è mai stata impostata sull’insegnamento per competenze. Siamo davanti, ne siamo consapevoli, ad un’operazione che richiederà molti anni per produrre i suoi effetti, e che dovrà coinvolgere per questo, in termini di innovazione e ricerca, le stesse università.
Che posto avrà la collegialità dei docenti nel lavoro che andate elaborando?
Diciamo che già la valutazione degli apprendimenti dovrebbe essere un’attività collegiale; sappiamo bene però cosa avviene in concreto, perché ogni prof è geloso della propria disciplina e se ne ritiene depositario in modo esclusivo. Per le competenze questo non è possibile, perché attengono a più ambiti disciplinari e pertanto la collegialità sarà sempre più necessaria. Di questo il modello e le linee guida terranno debitamente conto.