Imperdibili, per chi insegna, la mostra su Dostoevskij e tutto il lavoro che sta proponendo Tat’jana Kasatkina sulla natura della realtà come bi-composta. Una formulazione apparentemente difficile, eppure così prossima al lavoro dell’insegnante che è immerso costantemente nell’affascinante mondo di segni, le modalità con cui le cose si presentano a noi.
Guardiamola, la scuola, dal di dentro: da quando i piccoli alunni imparano a leggere e a scrivere a quando i più grandi decodificano i mondi delle scienze, delle letterature, delle tecnologie. Se un cammino di conoscenza si è verificato (potrebbe anche non essere successo), il percorso ha attraversato dei segni, diventati parte di una coscienza matura perché compresi nella loro dimensione di tracce di un significato più grande. È questo livello della realtà, quello appunto del significato, che rende uomini, cioè seguaci di uno scopo. Ma il cammino della conoscenza può anche non verificarsi in una scuola ridotta a spazio in cui i segni echeggiano a vuoto (ri-suonano), e rimandano a nessun significato se non quello rappresentato da formule e schemi che non portano da nessuna parte.
Il segno qui non trova la strada del significato e cade nella eco delle metafore con cui pericolosamente si gioca, confondendo la metafora con l’analogia (lo diremo tra un attimo riprendendo l’immagine dell’uomo e del mondo rilanciata dal Meeting). Ed è il dramma dell’insegnamento che si arena nel vuoto di un apprendimento nozionistico, ripetitivo, ultimamente anche inutile e dannoso perché distrugge la libertà della persona. Pensiamo solo al rischio della scuola in cui si consegna la responsabilità di educare al culto delle regole o di una didattica semplificata, cioè priva di nessi con la realtà che vorrebbe rappresentare. Da questo punto di vista la provocazione della bi-composizione è potente a attuale. Attraversa l’interpretazione di Dostoevskij, ma, si licet parva componere magnis, anche degli autori che la scuola dovrebbe proporre e di ogni altra materia. Ma questo può essere anche il destino dell’insegnante, la cui vocazione è di trasmettere ciò che vede e ciò che vive, e non solo quello che sa. Il segno, dunque, indica un aspetto del reale che non esaurisce in sé la sua misura e il suo scopo.
Il cammino della conoscenza deve affrontare la prova del segno e giungere a proporre, almeno come ipotesi, ciò che si scorge oltre il dato. È bello pensare allora all’insegnamento (ogni tipo di insegnamento per ogni ordine di scuola) come all’attraversamento di un testo, di cui piano piano si gustano insieme agli alunni gli strati della profondità, fino ad affidare alla libertà di una compagnia tra adulti e giovani la percezione del fondamento delle cose stesse, visibile al di là dei segni.
Se i testi di Dostoevskij sono da leggere e rileggere come figure dell’archetipo, di Cristo che bussa alla nostra porta per entrare (tutta la mostra gioca sul tema dello spalancarsi ad una prospettiva ulteriore) è bello pensare che la scuola, per l’insegnante e per l’alunno, possa essere un cammino di scoperta del mistero da cui provengono e a cui vanno le cose. In questo caso, come ci insegna la mostra (ma allora cosa può diventare la lettura, se non una immedesimazione?), il percorso attua il cambiamento della persona, non attraverso la magia delle formule o delle didattiche più o meno efficaci, ma mediante l’esperienza di un viaggio in cui ciò che si vede e si gusta stando alla finestra, diventa cuore, carne e sangue di chi guida la comitiva e di chi segue.