Con il 17,6% di ragazzi che abbandonano gli studi, secondo i dati Istat ed Eurostat, il nostro sistema di istruzione è in fondo alla classifica europea; un gap pesante con il resto dell’Europa, dove in media l’abbandono scolastico è del 14,1%. Nei paesi di pari sviluppo socio-economico la media è molto più bassa: in Germania è 10,5%, in Francia 11,6%, nel Regno Unito 13,5%. Il dato aumenta al Sud Italia, dove è al 22,3%, mentre al Centro-Nord di attesta intorno al 16%.
Che dire di fronte a numeri così? È noto che una significativa percentuale degli studenti italiani considera la scuola “un luogo dove non si ha voglia di andare”, e che circa il 30% degli iscritti alla prima superiore non riesce a terminare gli studi, mentre tra coloro che permangono nel sistema di istruzione i tassi di assenza scolastica sono in costante crescita. È di scarsa consolazione il fatto che rispetto al 2000, quando erano il 25,3%, la percentuale dei cosiddetti early school leavers sia diminuita, anche perché invece non accenna a calare (complice anche la crisi economica) quella dei “neet” – not in education, emplyoment or training – i giovani tra i 15 e i 29 anni disoccupati o volutamente inoccupati…
Una sistema scolastico in profonda crisi, insomma, le cui cause sono attribuibili ad alcune scelte disastrose fatte negli scorsi decenni e a luoghi comuni che ci opprimono sin dai tempi della riforma Gentile.
Ci riferiamo, in particolare, alla scolarizzazione forzata e alla liceizzazione eccessiva del nostro sistema di istruzione, frutti di uno schematismo culturale in base al quale sembra quasi che un giovane, in particolare se figlio di un professionista, debba vergognarsi di frequentare un istituto tecnico.
Sarebbe invece necessario rivalutare i mestieri, e se il figlio di un notaio volesse studiare per diventare un intarsiatore del legno o un meccanico, dovrebbe poterlo fare senza sensi di colpa né da parte sua né della famiglia; un’operazione di rivalutazione che dovrebbe giungere fino al punto di istituire facoltà per consentire, a chi sceglie lavori artigianali, di formarsi a livello universitario, così come avviene in altri paesi europei.
Sono numerosi gli studi che confermano come un’alta percentuale di quelli che hanno frequentato un Cfp (privato o appartenente al mondo no-profit) sia contenta di quello che ha fatto, e questa dunque sembra essere una strada privilegiata che può e deve essere sostenuta per raggiungere un simile obiettivo.
Ma da una traguardo così arduo ci separa ancora, purtroppo, un enorme gap culturale, tipico di un’Italia che non ha completamente smaltito le tossine di una ideologia che ha identificato nel lavoro una fonte permanente di disuguaglianze sociali, conflitti e sfruttamento, anziché uno strumento di realizzazione della persona e del bene comune. Siamo ancora impantanati nell’idea che “il lavoro non nobilita l’uomo”, mentre sarebbe necessaria una “rivoluzione culturale” che ci portasse a riconoscere non tanto che il lavoro nobilita l’uomo, quanto che è l’uomo a nobilitare il lavoro, poiché la persona non vale per ciò che produce o per il gradino che occupa nella scala sociale, ma semplicemente perché esiste.
Fra poche settimane i nostri ragazzi di terza media dovranno cominciare a decidere in merito al proprio percorso scolastico futuro. In diverse Regioni, purtroppo, è ancora impossibile accedere direttamente alla Formazione professionale dopo la secondaria di primo grado, e comunque tantissimi genitori sono ancora spaventati dall’idea che il figlio non vada ad un liceo.
Sarebbe auspicabile, invece, che i giovani potessero scegliere in prima persona il percorso che li convince di più, senza troppe pressioni sociali e familiari; ma, ancor più e ancor prima (perché diversamente la scelta non avrebbe modo di esercitarsi concretamente) sono auspicabili tutti quegli interventi che incrementano i meccanismi di flessibilità e la gamma delle opzioni, in un sistema di reale libertà di scelta e di molteplici possibilità formative. Tutte di “serie A”. Nell’istruzione, come nel lavoro, ognuno ha la sua strada e ogni strada è degna, perché degno è l’uomo.