Quando si parla di digitalizzazione nella scuola è senz’altro necessaria una energica scrollata per liberarsi dalle incrostazioni acritiche e modaiole che tale problematica si porta dietro da quando in Italia si è cominciato a parlarne. Tuttavia non sembra verosimilmente percorribile l’ipotesi suggerita da Sante Maletta, quella di lasciare tutto ciò che è tecnologia “fuori” dalla scuola, al fine di favorire da parte dell’alunno la “graduale” conoscenza della realtà, al fine di evitare una bruciante accelerazione delle esperienze. Forse tale consiglio può valere per i primi cicli della scuola, in cui il bambino ha ancora una forte necessità di sperimentare il mondo con l’impiego costante di tutti i sensi affinché la conoscenza si avvalga costantemente di essi per giungere a certezze teoreticamente fondate. Ciò naturalmente vale, seppur in misura minore, anche per le tappe successive dell’educazione, ma non è detto che la tecnologia non possa mettersi al servizio della conoscenza.
Rimane seducente, e per certi versi da ricercare, l’immagine di una scuola impermeabile alle insidiose infiltrazioni del digitale. Sarebbe superfluo suggerirne i vantaggi. Si potrebbero valutare i benefici di un’intera società che decida di fare a meno delle innovazioni tecnologiche. È nota la vitalità nella pratica della scrittura di Mennoniti e Amish del Midwest americano, che avendo rifiutato per motivi religiosi l’uso di qualsiasi strumento tecnologico, tengono attiva la vita della comunità con la redazione di un giornale, stampato in 12mila copie dall’Iowa al Minnesota e per il quale scrivono, in forma di lettera, ben 860 persone, peraltro non retribuite! Si tratta però, e forse inevitabilmente, di una comunità priva di grandi aperture. Il prezzo da pagare per una scelta così radicale potrebbe dunque essere troppo alto: l’isolamento.
Non si può certo negare che il concetto di “digital native” sia, dopo solo dodici anni dal suo conio, da rivedere o che la rete non possa essere intesa come fonte di conoscenza; così come è chiaro che non sarà un tablet ad insegnare ai nostri ragazzi le tabelline o a far percepire la straordinaria varietà di usi sintattici previsti dalla lingua italiana per la preposizione “di”. Ma forse la partita con il digitale può non essere persa a tavolino; rinunceremmo così a una delle più affascinanti sfide poste dal tempo che ci troviamo a vivere.
Che i cambiamenti, specie se bruschi o poco chiari, provochino una buona dose di diffidenza è cosa talvolta salutare oltreché prevedibile. Platone seppe già metterci in guardia, nel Fedro, dai rischi connessi a quella diavoleria che avrebbe enormemente ridotto le capacità mnemoniche dell’uomo che si chiamava scrittura alfabetica. Non si potevano allora immaginare quali grandi passi avrebbe permesso quella sbalorditiva trovata che in poco più di una ventina di segni grafici consentiva di riprodurre in uno spazio finito un discorso di ore o di giorni e di poterlo rileggere ogni qual volta si volesse.
Certo è che le potenzialità della tecnologia odierna, seppur meno rivoluzionaria dell’invenzione della scrittura (pensiamo a quale straordinario effetto deve aver sortito), rischiano di mettere in crisi un sistema educativo che voglia formare un soggetto pienamente cosciente di sé e delle sue potenzialità e non un mero utilizzatore di congegni. Il supporto digitale rispetto al supporto cartaceo ha infatti lo svantaggio (reputato un grande pregio) di trasformare completamente la percezione che si ha della rappresentazione e della comunicazione. Lo strumento digitale possiede l’innegabile facoltà di ridurre al minimo l’azione di chi lo utilizza e lasciare spazio allo strumento stesso. È senza dubbio reale il rischio di un’eclissi del soggetto a vantaggio dell’oggetto, del mezzo che dovrebbe, al contrario, avere la funzione di stimolare la crescita e la maggior consapevolezza del soggetto. Sarebbe paradossale se ciò accadesse nella scuola.
Per fortuna, però, non siamo ancora nella situazione in cui la scuola è invasa soltanto dalla tecnologia imposta dalla irrefrenabile sete di progresso di chi decide le sorti della pubblica istruzione. Per fortuna (o a volte purtroppo) nella scuola c’è ancora chi ha la responsabilità, o almeno il compito, di insegnare. La scelta di se e come dotare uno studente di più o meno strumenti tecnologici per lo studio e l’apprendimento di una materia è, in fondo, ancora del docente. Questo fatto potrebbe forse spaventare più di altri scenari, ma si tratta di un grande vantaggio. Il docente conosce la sua disciplina, ne conosce i fini, le potenzialità, le strategie di insegnamento. Chi meglio di lui può decidere di quali strumenti avvalersi per una migliore comunicazione dei suoi saperi? Chi meglio di lui sarebbe in grado di scegliere il modo migliore con cui l’alunno possa entrare in contatto e far proprie le conoscenze della materia?
Se può essere fissato un argine al dilagare incontrollato della tecnologia, questo può essere posto solo dal docente. Egli è chiamato dunque a porsi il problema della tecnologia e a verificare come questo strumento possa essere funzionale all’apprendimento della propria disciplina in una prospettiva che, ovviamente mutata, può rivelarsi preziosa. Il docente ha la possibilità, l’occasione in questo momento, di “mettere le mani in pasta”, di prendere contatto in maniera efficace con le tecnologie ora messe a disposizione e con esse riflettere nuovamente sui propri saperi per costituire una rinnovata proposta didattica in cui la progettualità possa essere maggiormente curata e ampliata. In questo processo è potenziato, dunque, e non omesso, il momento riflessivo sull’impiego della tecnologia, e il mezzo non usurpa il posto al messaggio ma ricopre il ruolo che l’insegnante, rigenerato regista dell’azione conoscitiva, decide che debba ricoprire.