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Home » Educazione » SCUOLA/ Una prof: “Bisogna che io creda di poter ancora imparare”

  • Educazione

SCUOLA/ Una prof: “Bisogna che io creda di poter ancora imparare”

Elisabetta Cassani
Pubblicato 6 Dicembre 2013
caravaggio_sacrificio_isaccoR439

Caravaggio, Sacrificio di Isacco (Uffizi, 1603) (Immagine dal web)

"Si direbbe che solo un miracolo ci può salvare". Quello di una riscoperta. ELISABETTA CASSANI sull'articolo di V. Capasa, "Si può spiegare l'Ulisse di Dante senza averlo mai visto?"

A tutti è capitato un momento (o più momenti) come questo descritto nell’apologo di Valerio Capasa: qualcosa desta in noi un desiderio diverso, apre una possibilità che era seppellita dalla routine di giornate che sembrano uguali da anni. 

Forse il lavoro dell’insegnante è paradigmatico anche da questo punto di vista. Indagini europee lo danno, tra le helping professions, come uno dei lavori più logoranti (se non il più logorante): certo, perché gli studenti non rispondono, i genitori si occupano solo di risultati numerici, l’amministrazione esige tempestività nel rispetto delle scadenze, l’opinione pubblica si scandalizza nel vedere lavoratori con tre mesi di vacanza e tutti i pomeriggi liberi. Insomma, un lavoro “a perdere”: fatichi tanto e non vedi nessun risultato. Meglio non faticare, dunque (il risultato non cambia). 


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Meglio non faticare? Forse un residuo di orgoglio, di desiderio di dignità professionale (o desiderio di autostima), fa sì che gli insegnanti continuino, nella stragrande maggioranza (lo dicono le statistiche) a prendere sul serio il proprio lavoro (del resto chi non lo fa soccombe, perde tutto, in una strada in discesa fino al non-senso di qualsiasi azione: allora – c’è sempre la definizione adeguata – si parla di burnout). Ma intanto, in mancanza di altri fari, ci si attesta sul programma, sulla direttive e le circolari (perché, oltre tutto, se non ci stai attentio finisci nei guai: nel mondo burocratico-statalista è fondamentale rispettare i protocolli). Così l’entusiasmo “da giovani”, quello che è quasi impossibile non aver provato all’inizio, quello che nasce quando si impara qualcosa (da lì spesso nasce l’intuizione che porta a diventare insegnanti di professione), si ridimensiona, o si frantuma, nelle scadenze interquadrimestrali e nei percorsi interdisciplinari (i vulcani: latino-scienze-fisica; la nascita del libro: filosofia-greco-matematica).


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Ma se per tutti può esserci l’occasione per riscoprire la giovinezza (quell’entusiasmo per la scoperta, che rende interessante l’enigmaticità della vita), per un insegnante, cioè per una persona che per lavoro deve stare davanti a persone in crescita, le provocazioni si moltiplicano a dismisura. Forse è per questo che si pensa di potersi permettere di trascurarle, forse le occasioni sono troppe, nel loro susseguirsi risultano destabilizzanti, si crede di non poter reggere a tutte quelle provocazioni. Quali provocazioni?

La prima e fondamentale (perché ne va della vita) è proprio di fronte al disinteresse dello studente (semisdraiato dietro al banco, nell’atteggiamento di sufficienza di chi sta facendo un piacere a qualcuno, come se dovesse essere ringraziato perché sta lì): In effetti perché dovrebbe interessargli quel che dico? 


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Certo è impossibile suscitare un interesse ripetendo una spiegazione già collaudata in “enne” classi degli anni precedenti, riproposta sempre uguale, che per ciò stesso – essendo inerte e indifferente a me e agli studenti − non spiega niente di interessante (secondo il noto aforisma: “la lezione è il momento in cui gli appunti passano dal quaderno – ora dal computer – del professore, magari attraverso la lavagna – o il power point, o la Lim – a quello dello studente senza passare per la testa di nessuno dei due”). Bisogna che quello che questa mattina andrò a spiegare mi sorprenda, abbia un punto, o un accento, di novità. Bisogna che io creda, alla mia età, di poter ancora imparare (cioè di poter ancora essere giovane).

Ecco che la lotta è ogni giorno: ancorarsi al “protocollo”, regione sicura e senza grossi imprevisti, continuando a lamentersi insieme a tutti nei corridoi, oppure prendere il largo come Ulisse, rischiare una domanda su di sé, guardare lo studente (che per altro, anche quando si trova nella nebbia della semilucidità mattutina, sempre ti guarda)? Tutto sembra orientare al mantenere punti saldi e sicuri, dall’età un tempo già pensionabile fino alla riunione sugli IDEI, tutto sembra spingere a considerare esaurito il proprio compito nella fedeltà ai turni di assistenza durante l’intervallo e nella precisione nell’osservare le scadenze indicate dalle numerose circolari. Sembra (o è?) impossibile mantenere un atteggiamento diverso. Si direbbe che solo un miracolo ci può salvare. Fortuna (o Grazia?) che i miracoli accadono. Così scopri che in effetti era sì da ringraziare lo studente che questa mattina è venuto in classe, svogliato e indifferente ma ineluttabilmente presente, e con ciò stesso fonte di provocazione al vivere.


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