L’articolo di sabato 16 marzo di Gianni Mereghetti affronta un tema importante della vita scolastica reale: il recupero. Tema antico, che fino al ’79 era affrontato nella scuola in modo punitivo con il “rimando ad ottobre” e l’obbligo per lo studente e la famiglia di recuperare le conoscenze mancanti. Mancanti per motivi di vario tipo, ma comunque mancanti e doverosamente da recuperare a proprie spese.
Il taglio punitivo è stato totalmente abbandonato nella nostra scuola ma non è stato sostituito da una prassi gestionale alternativa ordinaria. Tutti sanno che la lezione, il lavoro a classe intera, maledetto da tutti secondo la nuova moda ma ancora, e forse sempre, insostituibile in certe dosi, produce o mantiene uno stato ineguale dell’apprendimento negli alunni. Questo stato ineguale genera i sufficienti, i buoni, gli ottimi e gli insufficienti, anche se la linea di demarcazione tra il positivo ed il negativo è ancora molto aleatoria, indefinita e spesso arbitraria, come tutto il dibattito sulla valutazione dimostra.
Ma nell’articolo di Mereghetti alla fine si sfugge ad un bilancio concreto dell’esperienza dei corsi di recupero. Si osserva giustamente che corsi di recupero per 15 carenti sono destinati al fallimento, come la prassi dimostra, ma si presenta come alternativa il volontariato.
Sarebbe stato logico dedurre, come io feci nella mia carriera, che era necessario per il recupero formare gruppi molto piccoli magari di due o tre alunni. Avevo osservato che già quattro alunni producevano una dinamica simile a quella del lavoro a classe intera con la spinta inesorabile sul docente ad operare in forma declamatoria. Già nel rapporto 1 a 3 l’interazione risulta molto personalizzata, tempisticamente semplice ed efficace. Ma in casi particolari, dove la carenza culturale è fortissimamente intrecciata a problemi motivazionali o relazionali, si rende necessario il rapporto 1 a 1. La cui potenza è a tutti nota e fa parte della tradizione privatistica delle famose lezioni private. Ricordo che quando feci per la prima volta questi discorsi molti anni fa ad un assessore comunale che era stato di estrema sinistra come me, mi disse: “vuoi dare il tutore ai ragazzini come usavano gli aristocratici?”.
Ebbene sì, tutta la mia esperienza successiva ha confermato che la scuola non selettiva deve (e può) basarsi sul lavoro tradizionale a pioggia, quello a cui tutto il corpo docente è abituato, il lavoro cioè a classe intera, ma unito al lavoro mirato, cioè attuato su piccolissimi gruppi e in casi particolari anche con quello che chiamavo il “corpo a corpo” – il rapporto 1 a 1. Nei vari censimenti sull’area del disagio e del ritardo di apprendimento da me svolti, le carenze erano rilevanti in circa 1/4 degli alunni e molto rilevanti mediamente su circa 1 alunno per classe.
L’evidenza di queste osservazioni era innegabile, ma ideologicamente contraria fu sempre “l’area sindacale”, che tifava per il “tempo pieno” come soluzione di tutti i mali e di fatto proteggeva la richiesta corporativa dei docenti che volevano solo entrare in classe, lanciare (con livelli di destrezza molto diversi) i loro missili e poi correre a casa.
Ma la non trattazione del recupero ha reso i livelli culturali delle classi sempre più ineguali e via via sempre più ingestibile il lavoro a classe intera, per cui il problema delle classi ingovernabili, anche se sottaciuto, sta diventando e spesso è già diventato la vera e continua emergenza della scuola.
Incredibilmente, accanto alle dichiarazioni sulla necessità di personalizzare l’insegnamento presentissime fin dai nuovi programmi della media del ’79, nella scuola di Stato si è esteso, fino agli attuali curricoli giganteschi di 1000 ore annue, solo il lavoro a classe intera che è oggi il più routinario, burocratico e irresponsabile. Le riunioni periodiche sulla valutazione e sul giudizio finale oscillano costantemente tra dichiarazioni ottimistiche di maniera (…i ragazzi si sono impegnati secondo le loro possibilità) a dichiarazioni disperatamente nostalgiche (…ormai quasi nessuno sa leggere e scrivere decentemente) che però di solito convergono nella fatidica promozione, perché il ripetente è ancora meno gestibile del carente e poi la classe che segue ne verrebbe pesantemente gravata. I corsi di recupero sono oggi solo la residuale dichiarazione inutilmente intimidatoria verso l’alunno “lazzarone”.
La scuola già oggi potrebbe avere tranquillamente ed efficacemente due piani di lavoro come attività ordinaria: da un lato il lavoro a classe intera e dall’altro una quantità consistente, dotata di circa un quarto del tempo docenza totale, di attività mirate di sostegno e recupero attuate in parallelo alle lezioni in tutto il corso dell’anno. E tutto a costi aggiuntivi nulli. Basterebbe accettare la riduzione di 1/4 del gigantesco curricolo annuale, portando al 25 per cento il margine didattico a disposizione del collegio docenti ed assegnando alle singole scuole l’utilizzo del tempo docenza residuo.