PARIGI — Basta osservare il posto che occupano le “tecnologie dell’informazione e della comunicazione per l’insegnamento” nei nuovi programmi scolastici e nei testi ufficiali, per misurare l’importanza accordata alle Tice nel sistema scolastico francese: il XXI secolo dell’educazione sarà digitale o non sarà.
In una scuola alla deriva, dove le diseguaglianze nel sapere aumentano sempre di più, e dover il tasso di analfabetismo sembra aumentare in maniera esponenziale, i discorsi ufficiali sembrerebbero identificare nel digitale il rimedio miracoloso: basterebbe accendere una lavagna interattiva multimediale o insegnare agli studenti a pensare in digitale, per offrire alle generazioni future un accesso immediato, facile e indolore alla conoscenza, dando loro le chiavi di un inserimento riuscito nel mondo di domani.
In Francia il budget dedicato dalle istituzioni scolastiche all’equipaggiamento multimediale e digitale batte ogni record e il programma di formazione dei docenti mette oggi un forte accento sulle nuove tecnologie. Avendo avuto l’occasione di partecipare a svariati stages formativi, sono stata tuttavia sorpresa e frastornata dall’assenza completa di riflessione e dalla distanza rispetto al vero problema didattico dell’utilizzo delle Tice nella scuola. Come se bastasse padroneggiare l’uso di una Lim o saper gestire l’animazione di un blog a sfondo educativo per risolvere infine, in modo definitivo, l’eterna difficoltà della trasmissione del sapere. Le parole “Tice”, “multimediale” o “digitale” sembrano possedere virtù incantatrici proprie. Disgraziato l’ingenuo che, profondamente convinto dell’apporto potenziale di queste nuove tecnologie nella sua pedagogia, osa interrogarsi e aprire un dibattito non superficiale ma basato su dati scientifici e e didattici, sui pregi e i limiti di queste: rischia di essere messo alla gogna per la sua mancanza di “apertura” e per il suo orientamento reazionario, con la conclusione evidente che non desidera far crescere i suoi allievi.
Internet sembra costituire un mezzo formidabile di democratizzazione nell’accesso al sapere; tutto è là, a portata di clic, e quindi di tutti quei giovani che per la loro origine culturale in casa non hanno libri ma possiedono una tastiera e uno schermo come tutti i loro compagni. E tuttavia, se guardiamo bene, bisogna ancora sapersi orientare nella ricerca, possedere solide competenze di lettura, essere capaci di scegliere e gerarchizzare le informazioni per dominare lo strumento. Il celebre aforisma di Montaigne sembra oggi più che mai di attualità: “Una testa ben fatta vale più di una testa piena”. Come non sorridere, dunque, dell’utopica convinzione che l’insegnamento a distanza renda vana la missione del professore?
Il ruolo del maestro nell’apprendimento è più che mai essenziale. Sta a lui ridestare nei suoi allievi innanzitutto la sete di conoscere, di suscitare degli esploratori del sapere, delle personalità aperte sul mondo e desiderose di scoprirlo, forse uno degli elementi che più spietatamente fanno difetto alle attuali generazioni.
Sta a lui, il maestro, di guidarli, autentico Virgilio dantesco, nei meandri delle conoscenze disponibili, insegnando loro a usare la ragione per decodificarle, interpretarle e farle proprie in modo critico.
Senza dubbio è proprio qui il punto: occorre che il maestro maturi lui stesso, saldamente, in questo mondo del sapere e abbia chiaramente presente a sé stesso il fine, l’obiettivo principale e le tappe essenziali del percorso da effettuare insieme ai giovani che gli sono affidati. Ma se non è né possibile né utile trasmettere la totalità dei saperi disponibili, per quale ragione bisogna cominciare, e quali sono i fondamentali da trasmettere per primi se vogliamo generare delle personalità adulte e feconde? Questo dibattito è terribilmente urgente e necessario per rifondare la scuola, e solo esso le permetterà di interrogarsi positivamente, senza falsi timori e senza confusione dei fini e dei mezzi, sugli strumenti più adeguati.