Gentile direttore,
nella scuola superiore dove da quest’anno insegno, i test Invalsi sono argomento tabù: i colleghi mi hanno detto che negli anni passati la correzione dei fascicoli, o meglio la trasposizione delle risposte date dai ragazzi nel sistema informatico, è stata fatta da due volenterosi che nell’ostilità generale si sono assunti l’immane compito (sono molte classi) totalizzando qualcosa come 300 ore di lavoro straordinario non pagato. Il paradosso ancor più grave è che in questa scuola i dati Invalsi non vengono poi scaricati, e quindi la gravosa operazione risulta del tutto inutile.
Questa situazione è in palese contrasto con la normativa, e non penso tanto a quella che imporrebbe l’obbligo per le scuole di partecipare alla misurazione nazionale, con relativo divieto di sciopero come per i giorni in cui ci sono gli scrutini. Se è vero che con l’anno prossimo sarà a pieno regime il regolamento del Sistema Nazionale di Valutazione, farà un balzo in avanti non una generica “cultura della valutazione” bensì una svolta di natura anche politica, che richiede alle scuole un vero atto di trasparenza almeno interna in merito ai suoi risultati, cioè l’autovalutazione fatta con criteri comuni in tutta Italia.
Come ha scritto Gianna Fregonara sul Corriere della Sera del 7 maggio in un articolo intitolato “La scuola che ha paura di farsi valutare”), “il rapporto trasparente con le famiglie rischia di diventare uno dei punti di forza (o di debolezza) della scuola pubblica nei prossimi anni”. Solo una scuola trasparente, “sicura delle capacità dei propri insegnanti, potrà essere la vera scuola di tutti”. Altrimenti il rischio è che alla scuola pubblica resti un ruolo assolutamente marginale nel processo di ripresa del nostro paese, e non perché i genitori cercheranno la qualità altrove (faranno ciò solo i più avvertiti), ma perché la ripresa passa attraverso la valorizzazione del capitale umano.
Perché la scelta della trasparenza sia veramente compiuta dalla nazione in tutta la sua estensione mancano molte tappe intermedie, prima fra tutte la condivisione di questa scelta. La scuola evidentemente è fatta perché gli studenti che la frequentano imparino e crescano in competenze, e quindi è cruciale sapere in modo attendibile (cioè non viziato dai volatili standard adottati in ciascuna scuola e in ciascuna classe) quali competenze acquisiscono gli studenti italiani, da Aosta a Lampedusa, almeno in alcuni settori strategici: su questo punto probabilmente ci sarebbe un discreto accordo. È su tutto il resto che l’accordo manca.
Innanzitutto la validità dei test: la scuola è poco informata su come essi vengono preparati e soprattutto sul nesso fra prove e curricoli scolastici. La recente polemica involontariamente suscitata dal presidente dell’Invalsi, professoressa Anna Maria Ajello, non giova affatto all’Invalsi.
La professoressa in un’intervista a La Stampa ha parlato di un test con «domande trabocchetto», troppo difficili, a lei stessa incomprensibili, senza però aver controllato precedentemente la fonte: tali domande non appartenevano affatto a un fascicolo prodotto dall’Invalsi, come è poi emerso dalle opportune verifiche, sollecitate dagli autori delle prove che impiegano quasi due anni a licenziare un fascicolo funzionante. Un’affermazione imprudente come questa non fa che alimentare la polemica degli anti-Invalsi: in mancanza di una rettifica pubblica all’articolo su La Stampa, infatti, ha colto la palla al balzo Giorgio Israel, al quale evidentemente non può essere nota la lettera di scuse inviata privatamente dalla presidente agli autori delle prove. Di fatto è forte la diffidenza di tanti insegnanti, che magari trovano le domande ostiche perché non si rendono conto che in un test “standardizzato” devono necessariamente trovarsi domande a cui risponderà solo una minoranza di bravi, e altre domande a cui risponderà la massa.
Secondariamente l’uso che si fa delle prove è stato cavalcato malamente da ministri e addetti ai lavori, minacciando graduatorie di scuole e penalizzazioni, con intenzione magari non scorretta di riportare il carrozzone scolastico a un minimo di efficienza: ogni professionista deve essere responsabile del proprio operato, e così presidi e insegnanti. Con un piccolo particolare: che mancando la possibilità per le scuole di scegliere gli insegnanti e di governarsi autonomamente, non ci sono professionisti ma solo impiegati pubblici. Da qui l’ira che coglie di fronte alla richiesta, necessariamente conseguente alla valutazione, di “migliorare” i risultati degli studenti, evidentemente attraverso migliori performance professionali degli insegnanti, però il tutto con i soliti fichi secchi e a costo zero: niente formazione (persino gli Irre sono spariti), niente ottimizzazione delle risorse (quanto costa allo stato ogni studente? 10 volte quello che deve costare, visto che nella paritaria riescono a stare in altre cifre), e poi la vita quotidiana in cui le veneziane cadono in testa allo studente, non si riesce ad avere un armadietto per le cartellette di disegno se non a maggio inoltrato, e tutte le afflizioni del pubblico impiego.
Infine, non è affatto chiaro il risvolto lavorativo-contrattuale della vicenda. È indubbio che la raccolta-dati (il lavoro di coordinamento delle operazioni, far fare i test, trasmettere i dati delle risposte all’Invalsi), e l’uso dei dati (scaricare i risultati, analizzarli ed eventualmente divulgarli) comportano lavoro, e il lavoro in Italia dovrebbe essere regolato da contratti lavorativi, concordati con i sindacati. Tutti sanno che quello degli insegnanti si è basato per anni sul volontariato gratuito (vogliamo dire quanto vengono pagati le gite in trasferta, i corsi di recupero pomeridiani, le supplenze, le funzioni aggiuntive?); certo è che se un nuovo incarico, già osteggiato per motivi politico-culturali, oltretutto si presenta come gratuito e dovuto, non ha grande possibilità di attecchire nel cuore degli addetti. I sindacati avrebbero il compito di fare delle proposte, invece che vivere sull’insoddisfazione dei lavoratori.
Anche per la Fregonara il problema esiste, ma occupa un inciso: “a parte gli aspetti sindacal-contrattuali sui quali sarebbe meglio fare chiarezza al più presto anche da parte del ministero”. Secondo me non si tratta di un particolare “a parte”: o si mette mano a questo groviglio oppure la notizia di quanti hanno scioperato diventa argomento di vago sentore morale, in cui oltretutto chi si oppone ai test, benché esigua minoranza, si presenta come vittima di un sistema iniquo, e non come non-adempiente ad un compito istituzionale. Sento un silenzio inquietante da parte ministeriale: non conosco la fonte della notizia per cui “secondo i dati diffusi dal ministero, ormai 7 scuole su dieci usano i risultati delle prove dei propri ragazzi” (Fregonara), e mi pare anzi strano. Da quel che so io, lo 0,8% delle scuola non fa i test, ma il 75% non scarica i risultati. Questa forbice è e resta un problema da risolvere, e non basta più il discorso sull’importanza della valutazione.
Lettera firmata