Una delle più gravi ingiustizie che sono concepite a danno degli insegnanti è la seguente: per chi si aggiorna non è previsto alcun riconoscimento, né economico, né in termini di progressione della carriera. Il concetto è espresso in termini molto chiari in una tabella ministeriale che, a proposito di accreditamento di corsi di formazione, recita: “I docenti che partecipano all’attività di formazione di un Ente accreditato/ qualificato hanno diritto all’esonero dal servizio, secondo le disposizioni vigenti; le iniziative di formazione/ aggiornamento non danno diritto a crediti formativiin quanto la normativa vigente non prevede modalità di sviluppo professionale del personale docente”.
Nella sua lapalissiana formulazione questo assunto descrive il dramma di una professione costretta, se vuole in qualche modo stare ai ritmi della storia, ad aggiornarsi (c’è anche chi non lo fa, sia ben chiaro, avendo optato per la panchina), sebbene l’approfondimento delle conoscenze e competenze acquisite in periodi pregressi non abbia alcun riscontro nei fatti.
Neppure la formazione obbligatoria messa in campo dalla legge Carrozza (legge 128/2013, “L’istruzione riparte”) che pure prevedeva “per l’anno 2014 la spesa di euro 10 milioni”, dispersi nei rivoli delle varie decretazioni regionali, aveva un contraltare in uno straccio di valorizzazione dell’impegno dei docenti. Che pure, se vogliono comprendere gli alunni ai quali si rivolgono, la loro base culturale e quella delle loro famiglie, sono sollecitati continuamente a prendere contatto con nuove modalità di comunicazione, nuovi linguaggi, nuove modalità di espressione dell’unico desiderio: quello di dare senso e forma alla realtà nella quale si vive. Per fare un esempio sotto gli occhi di tutti, l’irruzione nella scuola delle nuove tecnologie, dalle Lim ai registri elettronici ai libri di testo in formato digitale, costringe i docenti ad un lavoro suppletivo, svolto talvolta di malavoglia proprio perché non accompagnato da alcun benefit.
Dal punto di vista della formazione e aggiornamento, che dovrebbe costituire parte fondamentale del compito docente (a patto che al medesimo docente venga restituita la credibilità che ha perduto anche per colpa sua, cioè acconsentendo a logiche sindacal-assistenziali), chi sale in cattedra è niente più che un volontario.
Ma ora, altra goccia che si aggiunge ad un vaso stracolmo di piccole ingiustizie, anche ai volontari (ma non ai docenti) si chiede di riconoscere crediti formativi.
È quanto stabilisce la bozza delle Linee guida per una Riforma del Terzo Settore, in sé molto interessante, là dove accenna alla concessione di crediti formativi universitari (cfu) ai giovani volontari eventualmente aderenti al costituendo “Servizio civile nazionale universale”.
Il giovane che fa servizio civile potrà, opportunamente, accedere a crediti che gli permettono di completare o arricchire il percorso di studi; al docente che fa servizio civile permanente in questo Paese, che si richiama continuamente alla scuola come riserva di capitale umano per la società, nient’altro che pacche sulle spalle nella migliore delle ipotesi.
Ci chiediamo: non sarebbe il caso di rivedere il sistema della concessione dei crediti formativi? Posto che non vengono attribuiti ai docenti che svolgono percorsi di formazione permanente perché manca una idea di carriera per chi lavora nella scuola, perché non rovesciare la frittata e partire dall’assegnazione di crediti proprio per porre le basi di una progressione professionale?
Il perché lo sappiamo, ed è la ragione dell’equivoco gravante sulla questione dei crediti.
I crediti formativi universitari (cfu) sono attribuiti dalle università, secondo una normativa risalente alla riforma dell’università del 1999 che associa i crediti, da incassare in sede di esame, alle ore di lavoro dello studente (1 cfu = 25 h).
L’art. 5 del Regolamento recante norme concernenti l’autonomia didattica degli atenei (n. 509/1999) specifica, inoltre, che “le università possono riconoscere come crediti formativi universitari, secondo criteri predeterminati, le conoscenze e abilità professionali certificate ai sensi della normativa vigente in materia, nonché altre conoscenze e abilità maturate in attività formative di livello postsecondario alla cui progettazione e realizzazione l’università abbia concorso”. Le università, è ovvio, fanno il loro mestiere e, come nel caso dei corsi Clil (propedeutici all’insegnamento in lingua straniera di discipline non linguistiche), che entrano direttamente nel merito della formazione di nuove pratiche didattiche, attribuiscono cfu solo ad alcune condizioni, tra le quali l’equiparazione dei corsi Clil ai corsi di perfezionamento.
L’errore da parte del Miur sta nel non concepire altro credito che non sia cfu: qui sta il busillis.
Bene: è concepibile un’altra forma di credito? Sì, crediamo. Si tratta appunto del credito formativo (formativo e basta) che secondo la normativa europea, una volta tanto potrebbe comportare la valorizzazione delle forme di apprendimento acquisite nell’ambito dei programmi di educazione permanente e ricorrente.
Tali crediti, acquisiti nell’ambito di percorsi realizzati anche in collaborazione con associazioni professionali, potrebbero comportare una qualche forma di avanzamento della professione, in termini di riconoscimento di responsabilità all’interno della scuola o di reti di scuole, per esempio sul versante dei rapporti culturali tra scuole di vari paesi, nelle loro varie sfumature: linguistiche, organizzative, didattiche.
Si avrà il coraggio di vagliare attentamente la problematica matassa dei crediti onde addivenire ad una soluzione, a nostro avviso a portata di mano? Auspichiamo fiduciosi.