Caro direttore,
lo stato comatoso della scuola è ammesso da tutti e le descrizioni fedeli di questa condizione sono ormai innumerevoli. Ma non credo che la via d’uscita oggi, in Italia, sia nello stabilire le qualità umane, relazionali o spirituali o progettuali del nuovo docente, e nemmeno la forza salvifica del docente appassionato o – come lo chiamo io – missionario.
L’insegnante appassionato, fino a 40 anni fa, era uno che fin da bambino amava leggere, spiegare, capire. Era uno che tutti individuavano come portato ad insegnare. Amava (salvo eccezioni) la cultura e le buone relazioni con i giovani e le famiglie. Era equilibrato, calmo e responsabile, diffondeva equilibrio, responsabilità. Il direttore era a sua volta una persona di cultura, pacato, in un ufficio pieno di libri e dispensatore di buoni consigli. Tutto era condito da una elemento oggi improponibile: la discrezione.
Negli ultimi 40 anni le cose sono cambiate radicalmente. Abbiamo visto e vediamo di tutto. Ma il “piccolo mondo antico” è inesorabilmente defunto. A mio parere la rinascita sta nell’autonomia controllata degli istituti scolastici e nella creazione di gruppi dirigenti forti di istituto (meglio di distretto) con vere capacità manageriali, capaci di operare rapidamente ed apertamente nelle scelte, dal personale alla valutazione dello stesso, nella gestione quotidiana, nello sviluppo creativo ed originale, nelle relazioni con i giovani, le famiglie ed il territorio, e di rapportarsi dialetticamente col ministero.
Il ministero dovrebbe essere il promotore ed il curatore di questa metamorfosi.
L’insegnante dovrebbe diventare un “normale” lavoratore con una vocazione all’ insegnamento, ma non necessariamente parossistica, bensì come accade in tante altre professioni, nella sanità, nell’industria, nel commercio. La scuola riformata potrebbe anche permettersi frazioni di personale con vocazioni anche medie, persino basse, come ogni azienda, purché gli staff dirigenziali (penso ad una direzione didattica di dimensione distrettuale con referenti nei singoli istituti o plessi e distinta dalla direzione amministrativa) fossero frutto di una corretta selezione guidata e controllata, almeno all’inizio, dal ministero.
L’insegnante “appassionato”, “militante” e quindi – per assioma – efficace, amato, imitato è dunque, oggi, in Italia, un falso problema, anzi, una falsa soluzione ai problemi della scuola.
Mille volte nei miei 25 anni di presidenza ho desiderato avere come insegnanti dei lavoratori normali, con cui si potesse discutere degli obiettivi, del metodo di lavoro, dei risultati, senza sdegni, senza passioni, senza conflitti ideologici, cioè legati allo schema mentale ed alla concezione personalistico-missionaria del proprio lavoro. Ovviamente per i “militanti” la loro missione doveva essere del tutto autogestita e richiedeva di non dare all’istituto scolastico un suo progetto, seppur democratico e non fazioso, ed alcuna forma di valutazione.
Mille volte ho rifiutato l’alleanza di questi “missionari” ingovernabili che mi proponevano di schiacciare i docenti normali o poco motivati (sempre difesi in sede sindacale magari proprio dagli “appassionati”).
Gli “appassionati”, spesso, in realtà, volevano l’egemonia assoluta.
Mille volte ho tentato invano di assumere il ruolo di coordinatore democratico e di regolatore del sistema scuola a cui ero preposto.
Devo dire che ho visto anche una frangia meta-criminale presente nella scuola, da tutti sottaciuta e che non si presenta di solito come richiedente illegalità, anzi, si presenta (se osteggiata) come ricercatrice della legalità al 200 per cento. E questo avviene anche negli uffici tecnici e nei concorsi, anche se gli intelligentoni della legalità non lo dicono mai.
Ricordo il caso (ma ne ho mille altri) di un bidello custode a cui vietai di mandare la moglie a fare le pulizie al posto suo (cosa che i presidi miei precedenti, legalisti da parata, non avevano mai fatto) che si mise nella posizione di chiedere l’applicazione rigorosissima delle regole. Praticamente ogni giorno mi arrivavano richieste scritte (sostenute da atteggiamenti anche fisicamente temibili) di verifica e controllo su stipendi, straordinari, azioni di altre persone, chiamate supplenti, ecc. Ebbene: un inferno. Lo sdegno ultralegalitario come reazione al tentativo di governo (nel mio caso assolutamente equilibrato ed onesto) del sistema.
Dovetti dedicare corpo ed anima a mantenere un equilibrio della scuola prima di andarmene, dopo vari anni. Seppi poi che tutti conoscevano il problema drammatico del custode, ma tutti facevano a gara nel tacerne e nel litigare furiosamente per definire la “didattica migliore”, quella più “progressista”. Ovviamente in totale assenza del ministero e dei livelli intermedi di gestione del sistema scolastico.
Non ci vuole nella scuola del personale missionario. Ci vuole personale normale, normalmente e variamente motivato come in ogni azienda, normalmente sensibile anche alla carriera e allo stipendio, ma ben guidato.
Ci sarà sempre una varietà di personaggi con livelli diversi di impegno, motivazione, intelligenza, capacità, tensione evolutiva. Ciò avviene in ogni azienda. Il problema, oggi, da noi, è la guida, i suoi poteri, la valutazione del suo lavoro e dei risultati. Quello che manca di più oggi nella scuola è un governo efficace ed efficiente degli istituti scolastici, oggi diretti in teoria da piccoli dirigenti locali assolutamente casuali, ma nella realtà da automatismi e conformismi ministerial-sindacali e diktat mediatici. Avere una dirigenza a livello distrettuale irraggiata in tutti gli istituti, con la dimensione di un migliaio di dipendenti ed una ventina di scuole, consentirebbe, credo, sia la buona gestione in tempo reale sia il controllo ed anche la formazione del personale docente.
Il paradosso invece è che lo stato, dove nessuno guida davvero le strutture ed il dirigente si limita ad occuparle e galleggiare, si propone come modello all’organizzazione della società, ma non nell’efficienza bensì nei diritti dei dipendenti e nell’impotenza gestionale.
Lavorare poco, pochissimo, guadagnare bene, non essere giudicati. Questo è il modello dell’azienda statale, che tutto il “progressismo” e l’opportunismo hanno sempre sostenuto portando alla diseducazione di un popolo ed all’enorme debito pubblico. Un modo di essere che piacerebbe a quasi tutti, ma che generalizzato porta la società al fallimento.
Nello stato si “lavora” 36 ore mentre nel settore non statale 40. Le 36 ore settimanali poi consentono 5 giorni di 7 ore e 12 minuti senza intervallo (senza sdegno sindacale, anzi su ideazione sindacale). Che vuol dire 7 ore al giorno anziché le 9 di arco lavorativo del privato.
Inoltre continua il rito delle pensioni statali anticipate e si continua con questa musica anche con Renzi, che pensa allo scivolo solo per gli statali.
Ricostruzioni di carriera fasulle, alcuni anni valutati 3 volte; trasferimento a domanda sacro senza nemmeno il parere della struttura ricevente, trasferimento d’ufficio mai applicato. Premi sempre a pioggia e lotta dura alle discriminazioni, cioè ai premi dati a chi li merita di più (una volta una mia brava docente rifiutò − senza alcun mio intervento, anzi con mia sorpresa − la riduzione di orario settimanale per allattamento perché, disse, voleva evitare disagi agli alunni. Le feci una lettera di ringraziamento. Mi saltarono addosso la sezione sindacale e la maggioranza dei docenti, che firmarono una petizione piena di sdegno).
Lo stato e il trattamento speciale del personale pubblico dovrebbero essere al centro di una profonda riflessione. Speriamo che il nuovo clima riformatore lo consenta e l’efficienza, l’utilità, l’efficacia e la normalità entrino davvero, senza solennità fasulle, nella vita pubblica.