I fratelli Kouachi e Amedy Coulibaly sono uomini come noi. È inutile denunciare la bestialità delle loro azioni e la loro follia, perché non c’è alcuna follia: ciascuno di noi potrebbe compiere lo stesso male che essi hanno messo in atto. Gli attentati terroristici di cui sono fautori rientrano perfettamente nella logica che li ha mossi, un’ideologia che giustifica la violenza. Già Hannah Arendt aveva intuito questo problema, secondo cui l’uomo è capace del male ed è banale la sua adesione ad esso. I terroristi che hanno sconvolto Parigi e l’occidente non hanno fatto altro che rispondere affermativamente ad un sistema che richiede il sacrificio della propria individuale libertà in nome di un’idea, che trova la propria realizzazione nel jihad.
Il polverone mediatico giustamente sollevato dagli eventi della scorsa settimana ha diviso l’opinione pubblica fornendo risposte insufficienti. Il dibattito relativo al fondamentalismo islamico e alla libertà di espressione rischiano di deviare lo sguardo dal problema fondamentale: la gravità degli attentati di Parigi non risiede nella minaccia alla libertà di un periodico di satira, ma nell’affronto alla dignità umana. L’occidente ferito non può permettersi di reagire reclamando una liberté dal sapore illuminista o sollevando un cartello recante la scritta “Je suis Charlie“. Guareschi scriveva che “lo slogan è una cosettina estrosa e facile da ricordare che non obbliga a pensare…è il ddt del pensiero”. La nostra risposta ai drammatici eventi di Parigi non si deve limitare a uno slogan, che apparentemente ci unisce ma distoglie il nostro sguardo dalla verità bruciante di quei fatti; ci unisce nella paura, ci unisce nella rivendicazione idiota di valori di cui siamo ormai stanchi, ma ultimamente ci abbaglia.
In alcuni memorabili versi dei Quattro Quartetti uno dei più grandi poeti del secolo scorso, T.S. Eliot, scriveva: “facemmo esperienza ma ci sfuggì il significato, e avvicinarsi al significato restituisce l’esperienza”. E ancora nei Cori da La Rocca domandava: “dov’è la sapienza che abbiamo perduto nell’informazione?”. Eliot, sommo interprete del proprio tempo, da un lato registrava la povertà di giudizio conseguente allo sviluppo di mezzi di comunicazione sempre più rapidi e sempre meno profondi, dall’altro indicava la necessità di affrontare l’esperienza in tutta la sua importanza, cercando sempre di coglierne il significato.
Allo stesso modo, in questo momento siamo esposti allo stesso pericolo, per cui siamo portati a minimizzare la gravità dei fatti gettando gli eventi in pasto alla cronaca o a riformulare la domanda riguardo alla nostra identità secondo slogan artificiali: se non riconosceremo che ad essere sotto assedio è innanzitutto la nostra dignità nella sua forma prima, che è la libertà religiosa, e se non cercheremo un significato agli attentati di Parigi allora il terrorismo avrà vinto. Ma se prenderemo coscienza della grandezza della persona, fondamento vero della cultura europea, allora non saremo sconfitti.
Abbiamo qualcosa da dire, qualcosa di ben più grande di “Je suis Charlie”: dobbiamo guardare al bisogno che le azioni abbiano un significato, che sia più forte di quello che ha mosso i terroristi, perché il male è banale e richiede che l’uomo annichilisca la propria razionalità, mentre il bene è radicale, è forte cioè di un significato più profondo, più duraturo, più umano. Abbiamo qualcosa da dire, dalle scuole ai luoghi di lavoro, fino a chi è direttamente implicato e responsabile della costruzione di un ordine politico, dobbiamo riscoprirci come popolo e guardare in faccia al male di cui, in fondo, anche noi siamo capaci e scegliere invece il bene che ci rende uomini.
Carlo Torregiani, V Liceo classico Don Gnocchi, Carate Brianza (MB)