Bene fa il sussidiario a promuovere un dibattito, senza infingimenti, sull’alternanza scuola-lavoro. E con franchezza mi schiero subito dicendo che io sto con l’alternanza, che la considero un passaggio cruciale verso l’innovazione del nostro sistema scolastico. Per questo saluto come un segnale positivo la recente introduzione di un obbligo di alternanza nella legge sulla Buona Scuola. Si può discutere sulla praticabilità reale, soprattutto in alcune zone del Paese, di una norma che costringe a così tante ore in stage (400 ore in un triennio tecnico-professionale pari al 12% del curricolo, 200 ore nei licei pari al 7% del curricolo totale), ma mi pare frutto di pigrizia mentale continuare a contrapporre la “vera” scuola (quella dei banchi, dei professori che spiegano e dei ragazzi che sgobbano sui libri) al lavoro che, al massimo, si immagina come luogo di applicazione delle conoscenze precedentemente apprese.
Oltre che come scelta didattica la questione si pone sul piano culturale: sappiamo riconoscere al lavoro la dignità di metodo di conoscenza e quindi di veicolo di apprendimenti, oppure no? Questo cambia il modo di fare scuola? Capiamo che la scuola, come l’abbiamo conosciuta e praticata, non è adeguata alle esigenze di tanti, troppi ragazzi, soprattutto a quelli delle fasce più deboli che non a caso da quella scuola finiscono per essere espulsi?
Dirigo una scuola che ha lavorato molto sulle alternanze. Il minimo obbligatorio triennale di stage della Buona Scuola lo superiamo da tempo anche in una sola annualità: le quarte dei tecnici vanno in azienda da inizio maggio a metà luglio. I ragazzi del professionale lavorano in azienda cinque settimane a fine quarta e cinque settimane a inizio quinta. Molti di loro aggiungono volontariamente sette settimane di lavoro estivo. Abbiamo verificato che spesso, almeno quelli che dimostrano di valere, vengono assunti subito dopo il diploma. Ma abbiamo soprattutto visto che i ragazzi in stage imparano e tornano più motivati, rafforzati da un sistema di valutazione che li guarda con criteri diversi da quelli scolastici e spesso rimescola le gerarchie valoriali. Anche i docenti allora imparano: per esempio a confrontare le loro valutazioni con quelli dei tutor aziendali e non raramente riescono a guardare i loro allievi con occhi diversi.
Ma c’è dell’altro: non basta andare “fuori” per poi tornare “dentro”. Occorre anche che il lavoro, nella sua dimensione formativa, sia portato “dentro”: la scuola è un luogo dove si lavora, dove si impara attraverso il lavorare. La scuola che dirigo affida ai ragazzi del professionale le manutenzioni dell’edificio e ne valuta i risultati come una disciplina scolastica (laboratorio di manutenzione); tutte le classi, anche quelle liceali, si impegnano annualmente nella realizzazione di un progetto orientato alla creazione di un prodotto utile, sia esso la presentazione di un monumento, lo slogan di una campagna, un software per qualche esigenza scolastica o la potatura degli alberi del campus scolastico.
Lungi da me pensare che solo ciò che è utile vale. Ma impegnarsi con la soluzione operativa di un problema, come si fa lavorando, attiva meccanismi di apprendimento creativi che alzano la qualità della scuola. E i ragazzi sono aiutati a capire che le discipline scolastiche sono punti di vista sulla realtà, nati da una storia umana mossa da domande poste ad una realtà che è unica e che per questo lega tra loro i saperi.
In tutti questi sensi sto con le alternanze. Credo siano un veicolo che spinge a ripensare la scuola nel suo complesso; comunque mi paiono da guardare con serietà, senza mitizzazioni né banalizzazioni. Soprattutto smettendo di pensare che siano tempo prezioso sottratto ad altro che sarebbe più vero e importante. Perché il più vero e importante è ancora tutto davanti a noi, da fare e da scoprire, nel faticoso quotidiano lavoro in classe, ma anche nella capacità di immaginare modi flessibili e diversi di essere scuola.