Come si può «difendere il latino»? Un articolo recente, tutto dedicato al «difficile rapporto fra scuola di massa e scuola di élite», esclude che vi si possa riuscire «solo dicendo che “fa ragionare”». Il rifiuto di questa difesa è sintomatico: perché non nega che il latino faccia ragionare; nega che ciò sia sufficiente (o desiderabile). Dunque siamo ridotti a questo: che per difendere l’insegnamento umanistico e le lingue classiche si deve prima difendere quel lontano presupposto, e cioè che la scuola debba insegnare a ragionare.
Ma liberiamoci intanto di un argomento ormai addirittura irritante: la riduzione delle lingue classiche nella scuola come atto di «democratizzazione» del sapere. Quel medesimo articolo muove dal dibattito sulla riforma scolastica in Francia. Al governo, in effetti, la scuola francese pare ancora troppo elitaria, «segregante», incapace di promuovere la mobilità sociale. Per ovviare a queste colpe la ricetta prevede tre ingredienti maggiori: «interdisciplinarità», «operativizzazione degli apprendimenti», «marginalizzazione degli insegnamenti tradizionalmente umanistici» (anche se, a giudicare da questo lessico, la marginalizzazione parrebbe già compiuta). Della buona fede di chi impugni il nesso tra «umanesimo» ed «élite» è ormai lecito dubitare. Nell’ultimo secolo di storia della scuola europea tutti gli attacchi al greco e al latino si sono compiuti in nome della «democratizzazione». E così, a forza di riduzioni progressive delle ore di latino e di greco, il liceo classico in Francia è praticamente morto (mentre in Germania è agonizzante e perituro). Se il deficit di egualitarismo democratico coincidesse con l’abuso delle materie umanistiche, e in specie di quelle classiche, ormai la scuola francese dovrebbe essere la più egualitaria del mondo, celebrare i fasti della propria democrazia, e non lagnarne le debolezze. Sentir lamentare, dopo la distruzione del liceo, il suo tasso di eccessivo «elitarismo» è una beffa insopportabile: o piuttosto è la prova che la «democratizzazione», se mai è davvero entrata in causa, è stata del tutto malintesa. Il sofisma che condanna le materie classiche è ormai chiaro: prima le si ghettizza come studio per soli eletti, poi le si cancella perché gli eletti non piacciono alla democrazia. Eppure l’esempio francese indica una verità piuttosto palmare: se un medico cura la gotta col salasso, e al decimo salasso la gotta non guarisce, che dovrà fare il paziente? Continuare a dissanguarsi? Non sarà meglio cambiare la cura? (suggerirei anche il medico).
Uno sguardo ad altre realtà potrebbe esser utile — e non ci si riferisce solo a quella europea. Chi scrive ha vissuto per un certo numero di anni in Germania, e si prodigherebbe volentieri, anche come addetto ai lavori, a tracciare la storia del «ginnasio umanistico» tedesco dalla fine dell’Ottocento ai nostri giorni; da quando cioè era alla base della migliore università del mondo, fino alla quasi estinzione di oggi. Non pregiudicheremo la pazienza del lettore fino a tal segno. Certo però fa sorridere che in Germania oggi tutti lamentino che gli studenti non siano più in grado di scrivere correttamente (la stessa lagnanza, com’è noto, è dilagante anche in Francia).
La Frankfurter Allgemeine Zeitung, che da almeno vent’anni si prodiga per la difesa delle materie umanistiche contro i «sedicenti modernisti» che «credono di poter riformare la scuola con il fanatismo dell’efficienza» (Effizienzfanatismus), oggi è arrivata addirittura a organizzare, si pensi un po’, dei concorsi annuali di dettato («Frankfurt schreibt!»). Studenti, insegnanti e genitori di una trentina di scuole tra Francoforte e Darmstadt che si riuniscono nell’aula magna del Goethe-Gymnasium per dimostrare di saper scrivere sotto dettatura parole come «zucchini e melanzane al gratin» (risposta corretta: «Zucchini-Auberginen-Gratin»). Nel 2013 per la categoria studenti vinse una diciottenne di Darmstadt che aveva commesso, ci assicurano, «soltanto 13 errori».
Ricamare su aneddoti come questo sarebbe facile, ma sterile. Anche perché il problema riguarda tutte le discipline scolastiche, che hanno conosciuto un impoverimento strutturale talmente progressivo da essere nitidamente riconoscibile. Tanto le materie scientifiche, quanto le materie umanistiche si prefiggevano un tempo di fornire agli studenti, insieme alle informazioni, le spiegazioni: insieme alle conoscenze, un modello teorico. Non solo la formula del teorema di Pitagora, ma la dimostrazione del teorema; non solo come si pongano gli accenti nel greco, ma a quali regole rispondano (e magari anche che cosa sia un accento!). Il passo successivo fu l’abolizione del modello teorico (troppo difficile! troppo astratto!) per rimanere solo ai «fatti». L’astrazione, che è il cuore di ogni processo cognitivo, è stata bandita. Fatalmente caddero poi sotto processo anche i «fatti»: le «informazioni», le «nozioni» troppo “aride” perché la scuola moderna potesse accettare di veicolarle. La strada verso la vacuità era intrapresa. Gli ultimi sviluppi lasciano intravvedere la tappa successiva: la vittoria sui «fatti» delle «emozioni».
L’editoria scolastica offre chiari riscontri. Nei manuali di oggi il modello teorico è pressoché scomparso, i «fatti» sono sempre meno, mentre dilagano, in tutte le materie, le immagini, gli schemi, i riassunti, i quiz, e tutta la segnaletica visiva di un apprendimento molecolare: corsivi, grassetti, riquadri, frecce, cornici, colori (evidentemente la pagina scritta incute terrore). Il loro compito è di surrogare l’essenzialissimo. Tutti gli studenti di ogni tempo si sono aiutati con schemi, riassunti e indicatori visivi: ma appunto lo facevano da sé, ed era un utile esercizio di sintesi, selezione, e ripensamento. Oggi deve essere il libro a farlo (poi ci sono i contenuti on line). Così anche lo stile dell’esposizione deve modernizzarsi: un tempo bisognava adeguarsi alle formule di uno spot, ora bisognerà adeguarsi allo spazio di un tweet.
Così dopo i fatti senza modello teorico, abbiamo le emozioni senza i fatti. La storia è diventata “narrazione”, gli storici devono dare “un’idea del periodo”; il latino e il greco sono giudicate materie parassitarie, e dunque i classicisti si devono accontentare della concessione di leggere Euripide in italiano (spesso persino all’università). Sui giornali intanto si difendono le ragioni dei mitocondri contro quelle dell’aoristo (l’esempio non è inventato), mentre la frivolezza di condannare la traduzione dalle lingue classiche contagia persino, per colmo di paradosso, specialisti della traduzione. Il colpo inflitto alla storia antica e alla geografia è paradigmatico.
Per guadagnare uno spazio alla storia del Novecento (esigenza comprensibilissima) non si è ridotto in proporzione l’intero, ma si è tagliato il segmento iniziale. Spiegare l’orrore della Shoah è un dovere ineludibile della scuola: ma che si capirà del mondo ebraico senza la storia antica? Il greco e il latino rischiano di finire come l’egittologia o gli studi assiro-babilonesi. Discipline che si finge di ammirare, ma che si riservano a una classe microscopica di tecnici, di «scribi» mediorientali, o semmai di amatori della domenica. Nello stesso paese che si crogiola nella retorica dei «beni culturali», e degli incalcolabili contributi che potrebbero offrire al Pil.
I gridi di allarme lanciati ancora nel secolo scorso da Lucio Russo, cioè da un matematico attentissimo alla cultura umanistica, non sono serviti a nulla (Segmenti e bastoncini, Milano 1998), se non a fotografare con dolentissima profezia gli esiti di oggi. La trasformazione dell’ordinamento scolastico dipende infatti dalla trasformazione a cui sono stati avviati i suoi “utenti”, e la scuola sembra aver rinunciato al suo doppio compito di insegnare a ragionare e di fornire conoscenze. Anche in questo caso il confronto con il passato può essere d’aiuto: il dipendente o il dirigente di una ditta che un tempo produceva radio o televisioni era in grado di comprendere i meccanismi produttivi della propria azienda, di riparare all’occorrenza un apparecchio, di riprodurlo in forma amatoriale nel proprio garage. Dubito che si possa dire lo stesso del dipendente o del dirigente che oggi lavora per una fabbrica di microprocessori. Costoro svolgono per lo più un lavoro di intermediazione tra la produzione vera e propria (sempre più automatizzata) e il cliente che comprerà il prodotto. È dunque crollato il divario di conoscenze che un tempo separava il dipendente dal cliente: oggi il dipendente ne sa quanto il cliente (cioè poco o nulla), perché entrambi sono ridotti, su fronti analoghi, al rango di consumatori. È un atto di egualitarismo democratico? Certamente è un egualitarismo verso il basso. E d’altronde, a chi ben osservi, l’unico atto di stolido e arrogante elitarismo sembra quello di presupporre che le generazioni di oggi non siano più in grado di imparare ciò che imparavano quelle di ieri.
Perché il nesso tra materie umanistiche ed élite è spesso il volgare sofisma di chi mira a bandire dalla scuola l’esercizio alla coscienza critica. Ai pedagogisti europei, che si scagliano da oltre un secolo, con ondate progressive, contro le lingue classiche, sarebbe utile osservare quello che è successo dall’altra parte dell’Oceano, e magari per una volta non solo negli Stati Uniti. Quanti conoscono la sorte di questi dibattiti in America Latina? Il caso del Messico è particolarmente interessante. Lì il rapporto tra scuola di massa e scuola di élite ha preso forme brutali, e per ciò stesso emblematiche: è lecito o no insegnare il latino agli indios? Nel Cinquecento i conquistadores spagnoli risposero di no, perché il latino era la lingua della chiesa, e non si voleva concedere ai nativi la possibilità di compiere una carriera ecclesiastica.
Quando la diffusione del latino uscì dai canali unicamente religiosi, quando si cominciò a studiarlo più in onore di Cicerone che di san Girolamo, la proibizione agli indios dové trovare altri argomenti. E l’argomento fu proprio quello falsamente filantropico: disciplina troppo elitaria, troppo difficile per il popolo, cui bisognerebbe offrire soltanto «aratro, alfabeto e sapone».
A queste coscienze così sensibili Alfonso Reyes, uno dei maggiori intellettuali e scrittori messicani («il miglior prosatore in lingua spagnola» lo ha giudicato Borges), protagonista della Rivoluzione, diplomatico di enorme esperienza internazionale, rinfacciò con piena ragione la «grossolana caricatura» cui riducevano il problema della promozione sociale, il «totale fraintendimento sulla gerarchizzazione degli studi di cui necessita l’intera istruzione nazionale», la «confusione funesta» e gli «scrupoli ridicoli» di un pedagogismo finto-buonista, destinato a «decretare l’abolizione totale del sapere umano per pietà male intesa». E concludeva: «il nostro ideale politico consiste nell’eguaglianza verso l’alto, non verso il basso».
Era il 1930. In Italia Mussolini celebrava il bimillenario di Virgilio. Ora che è passato anche quello di Augusto registriamo che la «pietà» dei finti democratici è sempre male intesa, che i loro «scrupoli» sono sempre ridicoli, che la loro «confusione» è sempre più funesta.