Lo studio della metodologia, Clil o non, è certamente una componente importante della formazione di un docente, ma la realtà di un rapporto duraturo (più anni) e la peculiarità delle fasce di età degli studenti fino almeno alla fine della scuola secondaria rendono il docente di scuole, più che il professore universitario, sensibile (o perlomeno dovrebbero) all’osservazione dei casi pratici, anche se in mancanza di una riflessione tali casi non determinano variazioni significative nella pratica didattica. Non facendo eccezione a tale “regola”, le esperienze, belle o brutte che fossero, hanno contribuito in modo significativo, per quanto non esclusivo, allo svilupparsi di una riflessione sul Clil non pregiudizievole ma nemmeno acriticamente entusiasta.
Una delle prime esperienze, da annoverarsi nelle “belle”, potrebbe essere quella di una scuola media statale con due insegnanti di area scientifica e una loro collega di inglese, alla prese con il Clil, e non certo per obbligo di legge, con cui mi trovai a discutere personalmente del lavoro fatto. Queste docenti avevano proposto ad alcune delle loro classi varie attività Clil, fra cui una sul concetto di nomenclatura e classificazione relativa agli esseri viventi, utilizzando una metodologia laboratoriale in moduli Clil ben strutturati e condotti.
Tre furono le preziose osservazioni ed indicazioni correlate che personalmente trassi dal contatto con quell’esperienza scolastica. 1. Classificare, una della attività della tassonomia di Bloom, è atto “naturale” e continuativo dell’esperienza quotidiana, e ciò ne “giustifica” la massiccia presenza nel rapporto col mondo animale e vegetale. Ergo, l’attività Clil era di tipo conoscitivo e formativa, innanzitutto per la chiara e lucida coscienza della docente di scienze, per nulla spaventata dalla “aridità” della nomenclatura, ed invece persuasa della sua “ragionevolezza” e profonda utilità per la maturazione dei suoi studenti. 2. Il livello linguistico in entrata necessario per lo svolgimento delle attività prevedeva che i ragazzi comprendessero istruzioni elementari, ma il livello in uscita, nelle osservazioni della docente di lingue, presentava descrittori decisamente più elevati di quelli in entrata: un lessico decisamente ampio di tipo sia nominale che verbale, e appreso con poco sforzo perché necessario al task (“compito da svolgere” e non exercise o activity) e un utilizzo anch’esso “naturale” di costrutti altrimenti marginali nello studio della lingua. Ergo, una competenza linguistica “elevata” (nel senso di più alta rispetto a quella in entrata) non sussisteva precedentemente all’attività, ma era stata sviluppata nell’attività Clil. 3. Le docenti avevano lavorato assieme, e molto, nella programmazione e nella conduzione del modulo e il lavoro era piaciuto sia a loro che agli studenti. Ergo, per fare il Clil occorre collaborazione e tempo, ma la soddisfazione aumenta.
Fu una piccola verifica sul campo, non la prima e non l’ultima, ma interessante proprio perché molto essenziale, del dual focus del Clil (si impara la lingua facendo un contenuto, e quanto imparato rifluisce nella classe di lingua) di Marsh, ed in merito al terzo punto la storia della “nonna di Montevideo” potrà fornire forse una qualche dignità accademica alla modesta esperienza qui proposta.
In occasione di un talk a proposito del ruolo del Clil nella Vocational education (l’insegnamento professionale), riportata in Regional Policy Dialogue 2014-14 del British Council, il relatore introdusse la sua plenaria raccontando di un’insegnante di inglese in Spagna, in pensione, ma presente alla conferenza perché, gli aveva detto prima di iniziare i lavori della plenaria, “interessata al Clil”. La nonna spiegò al relatore che l’interesse era nato in lei da quando il suo nipotino di 8 anni le aveva detto la settimana scorsa, e cioè che a lui l’inglese piaceva. Alla domanda della nonna, “Bello, ma perché ti piace?” il ragazzino aveva risposto “Porque hacemos cosas” (Perché facciamo cose).
Immaturità (scusabile vista la tenera età) del ragazzino, bocca buona della nonna, o profonda verità pedagogica che del learning by doing, e della conoscenza come avvenimento, non come “principio” ma come essa è, pratica didattica dove si tende ad far avvicinare le due rette parallele fino a farle congiungere?
Propendendo personalmente per la seconda, ma volendo accogliere la sfida lanciata dai livelli “bassi” di formazione, la cui importanza ai fini dello sviluppo della persona è comunque non in discussione, la questionche si apre è: quanto è replicabile questo modello ai livelli cosiddetti “alti”? Vale a dire, il Clil funziona anche lì?
E di cose brutte ai livelli “alti” se ne sono viste, e non poche.
(2 – continua. Leggi qui il primo articolo)