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Home » Educazione » SCUOLA/ Autovalutazione, le domande che cambiano (subito) la scuola

  • Educazione

SCUOLA/ Autovalutazione, le domande che cambiano (subito) la scuola

Elena Ugolini
Pubblicato 31 Luglio 2015
scuola_lezione_insegnante1R439

(InfoPhoto)

Nel Rav (rapporto di autovalutazione) sono insiti alcuni fattori che costituiscono potenti leve di cambiamento. Ne parla ELENA UGOLINI a proposito della propria scuola

8.511 scuole statali italiane e 2.126 scuole paritarie hanno completato la costruzione del proprio rapporto di autovalutazione (Rav). È di due settimane fa la notizia che a settembre sarà possibile fare ulteriori modifiche prima della pubblicazione che avverrà sul portale Scuola in Chiaro. Decisione saggia, perché consente di condividere il contenuto del rapporto con il collegio dei docenti, i consigli di classe ed il consiglio di istituto, all’inizio del nuovo anno scolastico.


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La parte più interessante di questo lavoro, infatti, è quella che chiede di individuare, sulla base dei dati e delle riflessioni svolte, le priorità rispetto agli esiti degli studenti da qui a tre anni, specificando gli obiettivi di processo utili per procedere nella direzione che la scuola intende seguire. Non  è scontato che le scuole italiane facciano questa operazione, sono talmente tante le questioni ”ordinarie” da risolvere che è raro potersi fermare per guardare “più in là”.


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Non  è un cambiamento da poco. Chi ha guardato con scetticismo la nascita del sistema nazionale di valutazione perché prevedeva come primo passo “solo” la costruzione di un rapporto di autovalutazione, forse non aveva tenuto conto di tre fattori che possono costituire, invece, una leva potentissima per il cambiamento. 

Primo: tutte le scuole italiane, in questi mesi, si sono fatte delle domande, utilizzando dati con un benchmark provinciale, regionale e nazionale, confrontandosi con 49 indicatori. Secondo: alle scuole è stato chiesto di individuare le priorità rispetto ai risultati degli studenti. Non solo i risultati scolastici (trasferimenti, bocciature, debiti, esami), ma anche quelli relativi alle competenze chiave, ai risultati delle prove standardizzate e agli esiti a distanza: quelli conseguiti nei livelli di scuola successivi (nel primo anno di scuola superiore, ad esempio, per le medie), in università (crediti del primo e del secondo anno), e nel mondo del lavoro (tasso di occupati fra i diplomati degli ultimi tre anni, settori di attività, tipologia di contratti). Terzo: tutte le scuole italiane hanno risposto mettendosi al lavoro e progettando il proprio futuro da qui a tre anni, senza cedere ad una logica puramente rivendicativa. La buona scuola che c’è già, invece di lamentarsi, si è interrogata seriamente sul proprio passato per guardare avanti, pensando a dei traguardi precisi che possono, da subito, diventare ipotesi di lavoro concrete.


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La forza culturale di questa operazione l’ho potuta sperimentare direttamente nella mia scuola. Ho chiesto ad un esperto esterno di presentare i dati del nostro istituto a tutto il collegio dei docenti. Volevo che l’impatto non fosse mediato da discussioni preliminari fatte da chi conosce già la nostra scuola. Una media alta di voti agli esami di maturità, i risultati nelle prove standardizzate molto al di sopra delle scuole con lo stesso background socio-culturale, la mancanza di varianza tra classi, il numero di ore dedicate al recupero, la modalità di progettazione tra docenti, l’ assenza di bocciati erano tutti dati confermavano la positività del nostro lavoro, ad eccezione di pochi ma importanti elementi: il numero debiti più alto rispetto alla media provinciale dei licei e una quantità di trasferimenti in uscita significativamente superiore a quella degli altri licei di Bologna. Erano dati che conoscevamo, ma vedere nero su bianco il paragone con tutti i licei della nostra città ha fatto nascere una riflessione più approfondita, meno generica e ha indotto a non trovare subito delle giustificazioni (la scuola è il regno delle giustificazioni, non solo per gli studenti, ma anche per i docenti e i dirigenti!).

Ecco le prime reazioni: “Perché dare molti debiti dovrebbe essere negativo? È un segno di serietà a fronte della decisione di non fare una selezione in ingresso dal primo ciclo”. “Perché stupirsi di fronte ad un alto numero di trasferimenti? Nella nostra scuola i bocciati sono pochissimi ed evitare di far perdere un anno ai ragazzi attraverso un lavoro di ri-orientamento è molto positivo”. “Ma perché alcuni alunni si trasferiscono anche nel corso del triennio? Perché anche studenti che potrebbero proseguire nella nostra scuola cambiano nonostante la qualità della proposta didattica che offriamo? Cambiano solo perché vogliono percorrere delle strade più facili dove si possono conseguire voti più alti con meno fatica, o perché non sentono valorizzato il loro impegno? Perché un così alto numero di debiti a fonte di un numero così alto di ore investite per il recupero anche nel corso dell’ anno scolastico? Il fatto che i ragazzi recuperino e siano ammessi alla classe successiva è positivo, ma i debiti non dovrebbero essere un’eccezione? Con dei bravi insegnanti non dovrebbero bastare le mille ore di scuola che svolgono nel corso di ogni anno scolastico? Come impostare l’ora di lezione e l’organizzazione del lavoro per rendere più efficace la didattica? Come far percepire ai ragazzi il senso di quello che gli chiediamo aiutandoli a percepire dentro l’impegno che gli è chiesto la positività del percorso che stanno facendo?”.


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