Caro direttore,
Con il primo di novembre fanno due mesi dal mio “collocamento a riposo”. Lo confesso: sono una pensionata e anche se i colleghi (ormai ex) mi considerano “baciata dalla fortuna”, io voglio continuare a rimanere sul pezzo e lo voglio fare con il massimo di dedizione. Tentativi ironici, diceva qualcuno…
Ed è proprio fra questi tentativi che si colloca un doposcuola in parrocchia, avviato da circa tre settimane, ma con una discreta tradizione alle spalle. L’esperienza — lo dico subito — ha dell’incredibile specie per una come me, da anni docente di lettere in una media dello Stato, a Sesto San Giovanni.
La parrocchia che lo ospita è sita infatti in una zona di sciuri e i docenti che prestano la loro opera di volontari sono per lo più over 65: una pattuglia governata con ordine da due giovani mamme che si turnano su quattro pomeriggi — dalle 14 alle 16.30 — senza davvero perdere un colpo.
Ma veniamo all’utenza, anche se il termine mi piace poco. Il numero delle presenze oscilla tra i quindici e i venti ragazzi: degli unici due italiani, uno non è certo annoverabile tra gli scolari modello; i rimanenti sono per lo più alunni cinesi di prima alfabetizzazione. Non sto scherzando: ha capito bene. Ma questo sarebbe niente, se non fosse che i poveretti, in arrivo alle 14 direttamente da scuola, ci si presentano con pesantissimi zaini carichi di libri, in quantità a dir poco esagerata. Dopo una mezz’oretta di ricreazione durante la quale consumano insieme un pasto frugale a base di bibita e panino, incomincia per tutti il duro lavoro dei compiti. La mamma responsabile delle attività di quel giorno affida con sollecita cura ad ogni volontario uno o più ragazzini, sulla base delle diverse discipline di competenza.
Da quel momento in poi… si aprono le danze. Ciascuno infatti trae fuori dal proprio zaino, insieme al diario — dove incredibilmente sono stati scritti i compiti assegnati a scuola dal professore della relativa materia — anche i libri su cui lavorare. Ed è a questo punto che lo shock raggiunge il suo apice. Almeno per me, che da subito ho dichiarato la mia disponibilità esclusivamente per italiano, storia, geografia ed eventualmente per qualche rudimento di francese. Con i numeri, si sa, i cinesi se la cavano; io invece no, da sempre….
Chiedo a Shuren, che frequenta la terza media e alla fine dell’anno dovrà quindi sostenere l’esame, cosa deve studiare per l’indomani. Lo vedo in difficoltà nel tentativo di rispondere perché non gli riesce di farlo nella mia lingua. Si aggrappa con fatica a qualche parola che scava a tentoni nel suo povero vocabolario; arriva, zoppicando, a mettere insieme una frase e finalmente… partiamo: e Rivoluzione americana e Guerra di secessione!
“Dove studiamo, Shuren? — gli domando —. Hai degli appunti? Delle schede? Un testo facilitato?” Non mi risponde. Si limita ad aprire il suo libro di storia e me lo avvicina: lo mette al centro tra lui e me; quindi lo apre al capitolo indicato. Gli chiedo di cominciare a leggere perché nel frattempo, a me, si è strozzata la gola e devo cercare di tirarmi insieme…. Balbetta con dignità due righe di corsivo. Lo interrompo, cercando di non ferirlo; chiudo il volume e gli dico di prendere un quaderno. Nel frattempo recupero un atlante e comincio col fargli vedere dove si trova l’America. Procediamo lentamente, fissando alcuni punti con frasi semplici, elementari. Sembra comprendere! È intelligente, Shuren, ma gli mancano gli strumenti e non sono certo in grado io di darglieli tanto più se, a dividerci, c’è un volume di storia pressoché inaccessibile non solo a Shuren, ma anche ai suoi compagni, madre lingua italiana da generazioni…
Visto che talvolta sembra proprio impossibile fare della “buona scuola”, vediamo di provare a fare qualcosa che almeno le somigli.