La questione dei compiti a casa ritorna ciclicamente a galla come un elemento di conflitto fra genitori e scuola, tanto che in passato ci sono stati dei ricorsi all’Osservatorio per i diritti dei minori: la novità di quest’anno è che un paio di genitori hanno reso pubblica la decisione di non far fare i compiti ai loro figli, nelle vacanze o durante la settimana, perché ritengono più utile stare con loro, o far fare loro attività ludiche e sportive. Il quesito si sdoppia: compiti sì o compiti no? E se la scuola decide che sì, e il genitore pensa che no, che fare?
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La normativa in proposito è chiara: una prima circolare (per chi volesse leggere l’intero testo, è la C.M. 20 febbraio 1964, n. 6) considera che il lavoro svolto a scuola e quello svolto a casa concorrano entrambi alla formazione culturale dell’alunno, anche se il primo è più importante, e conclude che “costringere i giovani ad aggiungere alle quattro o cinque ore di scuola altrettante, o anche più, ore di studio individuale a casa, oltre agli eventuali riflessi dannosi sotto il profilo igienico, contribuisce a determinare una preparazione lacunosa … e precaria”. La più recente C.M. 14 maggio 1969, n. 117, tuttora valida, addirittura precisa che il ministero è venuto nella determinazione di disporre che agli alunni delle scuole elementari e secondarie di ogni grado e tipo non vengano assegnati compiti scolastici da svolgere o preparare a casa per il giorno successivo a quello festivo”, provvedimento fra i più disattesi. Nelle singole scuole, il collegio dei docenti può deliberare le linee comuni che gli insegnanti dovrebbero seguire.
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Nel caso milanese riportato ieri da Repubblica, per la bambina Mariasole si parla di “otto ore”, quindi di una scuola elementare a tempo pieno con un orario da metalmeccanico, in cui nelle quaranta ore settimanali dovrebbe ragionevolmente trovare spazio anche un’eventuale attività di recupero delle lacune personali (alle elementari!) che difficilmente avviene a casa, anche perché i bambini con lacune spesso provengono da famiglie che non sono in grado di aiutarli. Per inciso, uno dei Focus di Pisa (il n. 46) ha per titolo “I compiti a casa accrescono le disuguaglianze” e dopo aver riscontrato che non c’è un rapporto fra ore di studio a casa e apprendimento, nota che i quindicenni italiani studiano a casa in media nove ore la settimana, a fronte delle sei di media, superati solo dai russi, con dieci ore.
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Una quota non devastante di compiti a casa, secondo gli psicologi, può peraltro avere aspetti utili: sviluppa il senso della responsabilità e la capacità di organizzarsi, aiuta a perseguire un obiettivo e a riconoscere le proprie lacune. I genitori possono potenziare gli aspetti formativi fissando dei tempi per i compiti, aiutando il bambino a concentrarsi, dandogli fiducia e un aiuto quando serve, non certo sostituendosi a lui per fare un compito che è al di sopra delle sue forze, come non raramente capita.
Se questa (ripeto, sto pensando ai bambini più piccoli) è l’utilità dei compiti a casa, il genitore che giustifica la scelta di non farli sbaglia pur avendo ragione: ha ragione, perché il tempo della scuola non può essere così pervasivo da bloccare ogni altra esperienza dopo le otto ore passate a scuola, ma sbaglia perché delegittima la figura del docente e con il suo esempio incoraggia il bambino ad agire di testa sua ogni volta che non è d’accordo con i suoi insegnanti.
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La scuola prevede ampi spazi in cui le famiglie possono fare presenti le loro istanze. La mamma di MariaSole è rappresentante di classe? Parla con le maestre e con il/la dirigente? Ha formalizzato il suo disagio magari cercando di coinvolgere altre famiglie e confrontandosi con loro? La giustificazione scritta alle maestre e tempestivamente resa pubblica mi pare una scelta certamente social, ma altrettanto certamente individualistica.