12 marzo 2011: un ragazzo a Parigi uccide un coetaneo, Samy, perché ha attraversato la linea immaginaria tra due quartieri. Violenza pura, gratuita, assurda. Un gesto selvaggio a due passi dal liceo in cui ha appena iniziato a insegnare un giovane professore, François-Xavier Bellamy.
L’inselvatichirsi dei rapporti tra i giovani, quasi un ritorno allo stato di natura, comparato ai risultati deludenti della scuola francese, che in dieci anni registrano il passaggio dal 16% al 22% di dispersione scolastica, interrogano profondamente Bellamy, il quale pubblica nel 2014 un libro intitolato Les déshérités, ou l’urgence de trasmettre (I diseredati, ovvero l’urgenza di trasmettere), ed. Plon. Basta scorrere l’indice per capire che si tratta di un testo coraggioso: la prima parte, intitolata “Tre scosse in un terremoto” presenta il pensiero pedagogico di tre colossi della filosofia francese sorprendendo le origini della crisi educativa attuale nella loro condanna della “trasmissione”, nemica della ragione per Cartesio, della natura per Rousseau, della giustizia per Bourdieu. La seconda parte del testo intende invece proporre una via per rifondare la trasmissione a partire dalla domanda sulla definizione di cultura, fino alla considerazione, nella conclusione, dell’urgenza della riconoscenza, perché nessuno di noi si è fatto da solo: attraverso la nostra lingua, la nostra storia, i saperi che abbiamo ricevuto, siamo stati condotti fino a noi stessi, fino al nostro stesso pensiero e alla libertà che abbiamo conquistato. Senza riconoscere questo, dice l’autore, i giovani sono dei diseredati. Non c’è cultura, non c’è educazione.
È sorprendente rintracciare nelle riflessioni dei filosofi citate e commentate da Bellamy i semi di tutte le concezioni in voga relative all’educazione e alla didattica, quali l’idea di docente come facilitatore; la scuola come luogo di formazione delle competenze; la condanna della lezione frontale, dell’apprendimento mnemonico, della fatica dello studio; la sfiducia in ogni forma di autorità, concepita come alienante e opprimente…
Si legge ad esempio nel Discorso del metodo di Cartesio (1637) che, una volta finito il corso di studi in scuole rinomate e prestigiose, si trovava pieno di così tanti dubbi ed errori che gli sembrava di non aver raggiunto altro obiettivo se non l’aver scoperto sempre di più la sua ignoranza. Da qui lo scetticismo radicale verso il sapere impartito dagli altri: “imparai a non credere troppo a quello che mi proveniva dagli altri per non offuscare la mia luce naturale”. La cultura dunque come alterazione della natura e la scuola come luogo principale di tale deformazione, di tale allontanamento dal vero sé. L’infanzia come periodo di infermità provvisoria della ragione, in quanto, influenzata dalla cultura, ostacolata nel proprio autonomo cammino di scoperta della verità.
Diverse le premesse, eppure uguale la condanna finale della trasmissione, nel pensiero di Rousseau. Riflettendo sul tema di un concorso bandito nel 1750 dall’Accademia di Digione: “Se il rinascimento delle scienze e delle arti abbia contribuito a migliorare i costumi”, constata che il progresso della civiltà ha reso l’uomo cattivo e infelice: più l’uomo ha perfezionato la cultura, più si è allontanato dalla sua natura.
Felice dunque l’uomo che rimane sempre bambino, non diventa sapiente, perché solo così può conservare la prossimità al suo stato naturale. E nel trattato Emile, o dell’educazione (1762) Rousseau declina il metodo attraverso il quale preservare il bambino dall’errore, metodo che ha il suo fondamento nell’immediatezza: l’educatore deve astenersi dal frapporre tra il bambino e la realtà qualsiasi forma di mediazione, in primis la parola. Occorre cioè favorire l’incontro diretto con le cose, senza spiegazioni, senza categorie che potrebbero condurre nell’errore: “nessun altro libro che il mondo, nessun’altra istruzione che i fatti”.
E ultima scossa del terremoto, il contributo di Bourdieu, il sociologo che pochi anni prima del ’68 scrive il libro Les Héritiers (Gli ereditieri), nel quale, dando ormai per scontato che la trasmissione sia contro la libertà e la ragione, si chiede a chi giovi. La risposta che si dà è che la trasmissione non sia altro che una forma di autoaffermazione dell’élite: la classe dominante non perpetua sé stessa dando in eredità ai suoi figli esclusivamente un patrimonio economico, ma anche culturale. Una cultura che si trasmette per auto legittimarsi e per differenziare dalla massa chi la riceve. Da qui la condanna della scuola come luogo finalizzato alla dominazione della classe popolare da parte di quella dominante, ove si creano le diseguaglianze che si dice di voler combattere. La scuola dunque come istituzione intrinsecamente violenta. La soluzione per Bourdieu sarebbe una riforma della scuola che la rendesse meno artificiosa, finalizzata a preparare i giovani professionalmente all’universo del lavoro, il solo veramente reale: sviluppare delle attitudini, delle competenze, non perpetuare il sistema culturale dominante che non ha alcun fondamento se non l’autoconservazione dell’élite.
Di fronte a tanta disistima per la trasmissione della cultura e per la scuola sorge spontanea la domanda in Bellamy, e in qualsivoglia docente: ma allora perché insegnare? Perché entrare in classe ogni mattina? Su cosa rifondare la didattica e l’educazione? L’educazione essendo per sua natura antitetica alla disperazione.
Innanzitutto I diseredati propone di rivedere la concezione di cultura e per farne capire la parentela con l’essere piuttosto che con l’avere, ricorda la triste storia di Victor, il bambino selvatico dell’Aveyron, trovato alle soglie del 1800 nei boschi del sud della Francia e studiato come caso di uomo allo stato naturale. Ebbene, lungi dall’essere il buon selvaggio auspicato da Rousseau, Victor era “indifferente a tutto, assolutamente incapace di attenzione. Aveva i sensi ma non se ne sapeva servire, i suoi occhi non sapevano guardare, le sue orecchie non sapevano ascoltare… tutti i suoi sensi erravano senza posa da un oggetto all’altro senza mai fermarsi… Un essere diseredato dei più nobili attributi della sua specie”. Gli studiosi che se ne occuparono convennero che senza mediazione non si sviluppa l’umano, perché – suggerisce Bellamy — l’essere umano è per natura un essere di cultura. Ed è attraverso l’incontro con ciò che un altro gli trasmette che compie la sua umanità. Per rifondare l’educazione occorre dunque accettare che il nostro io dipenda da altro. E che, di conseguenza, essere sé stessi non sia immediato, non sia senza mediazione.
Prima forma di mediazione, indispensabile per divenir sé stessi — suggerisce Bellamy — è la parola. Si è a più riprese teorizzato che la lingua rende schiavi (“l’uomo è parlato dalla lingua”, Eco dixit e Barthes: “la langue est tout simplement fasciste“), imponendo le categorie di pensiero che inficiano lo sguardo diretto sulla realtà e condizionano nella conoscenza della verità. Certo è innegabile il potere che la parola ha di categorizzare l’essere, ma la lingua non è qualcosa che si aggiunge al pensiero, bensì è l’alveo in cui esso può nascere. Dove non vi è padronanza della lingua non vi è pensiero, non vi è possibilità di denominare, cioè di differenziare, non vi è possibilità di predicare, cioè di giudicare, di riconoscere il rapporto tra sé e l’essere. Dove non c’è la lingua si genera violenza, perché la persona necessita di dire e di dirsi: se non ne ha gli strumenti utilizza la forza per affermarsi. E attenzione: non basta un vocabolario minimo, di base, perché l’uomo è complesso e ha bisogno di molte sfumature per dire anche solo le sue emozioni, i suoi sentimenti. Per essere noi stessi abbiamo bisogno delle parole degli altri.
Bellamy propone poi altre forme di mediazione, quali i libri, come possibilità di fare i conti con il pensiero altrui per poter sviluppare un pensiero libero e personale (anche Cartesio ha avuto bisogno di studiare il pensiero di altri, per poter elaborare un suo singolare pensiero); le regole, che permettono di differenziare e di ordinare ciò che rimarrebbe avvolto nella nebbia della confusione (bellissimo il suo esempio sull’ortografia: in francese è e abbia si pronunciano allo stesso modo, /Ɛ/, ma si scrivono diversamente est, ait. L’indifferenza verso la forma grafica può aumentare la confusione categoriale); i maestri, ovverosia persone appassionate delle loro discipline che insegnino autenticamente, che chiedano ai loro studenti di apprendere ciò che insegnano, che facciano vedere le differenze, perché l’indifferenza porta la noia e la noia alla violenza, mentre l’accorgersi delle differenze porta a stupirsi della varietà della realtà e suscita interesse; che appassionino al particolare, perché il particolare è la sola strada possibile per raggiungere l’universale (audace Bellamy nel sottolineare l’impossibilità a educare proponendo una cultura universale, infatti non si può che educare proponendo una lingua, una cultura, una storia particolari, perché l’uomo non è un essere “di immediatezza”).
Forse vi è un aspetto poco esplicito nella riflessione di Bellamy, che merita invece grande attenzione in campo educativo. Come ben illustra Luigi Giussani ne Il rischio educativo, testo con il quale I diseredati ha molte affinità, “per rispondere in modo adeguato alle esigenze educative dell’adolescenza non basta proporre con chiarezza un significato delle cose, né basta una intensità di reale autorità in chi lo propone. Occorre suscitare nell’adolescente personale impegno con la propria origine; occorre che l’offerta tradizionale sia verificata; e ciò può essere fatto solo dall’iniziativa del ragazzo e da nessun altro per lui”. La chiave dell’educazione è tale verifica, questo paragone tra l’ipotesi di senso proposta e ciò che accade nella vita, ed è su questo che oggi si gioca la partita con i giovani: come diventa esperienza l’ipotesi di significato che l’autorità consegna?
Un contributo preziosissimo I diseredati di Bellamy, per chi sente la pressione contraddittoria di una società che chiede alla famiglia e alla scuola di educare, ma senza proporre una visione del mondo particolare; di formare dei cittadini, ma senza esercitare la propria autorità; di sviluppare delle competenze, ma senza trasmettere delle conoscenze; di formare degli uomini, ma senza proporre e verificare un significato.